La nostra democrazia è dispotica?

22 Febbraio 2011
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Andrea Pubusa

Volete capire il presente?  Ecco una volume che aiuta. Si tratta del saggio «La democrazia dispotica» (Laterza, pagine 224, € 18), in cui Michele Ciliberto analizza le tendenze degenerative della politica in Occidente, alla luce delle opere di autori come Alexis de Tocqueville e Max Weber, con particolare riferimento alla situazione attuale del nostro Paese.
Del tema legato alla c.d. postdemocrazia si sono occupati molti autori in Italia e all’estero. Ricordiamo fra gli altri un recente libro di F. Bertinotti sulla Democrazia autoritaria, pubblicato da Datanews nella collana Nuvole rosse.
Chi è l’autore del saggio?
Ciliberto, nato a Napoli nel 1945, è uno dei massimi studiosi dell’opera di Giordano Bruno. Insegna Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa ed è presidente dell’Istituto nazionale di studi sul Rinascimento.

Ecco una breve scheda sul volume.

Questo libro nasce da una doppia interrogazione: sulla democrazia e sulla situazione attuale del nostro Paese. Si sofferma su alcuni classici della democrazia fra Otto e Novecento e su questo sfondo interpreta il fenomeno del berlusconismo. È stato infatti Tocqueville a segnalare i rischi dispotici della democrazia con due esiti possibili: diventare tutti eguali e tutti schiavi, oppure tutti eguali e tutti liberi. Ma la storia europea moderna ha dimostrato che la prima possibilità è più concreta della seconda: quello che, infatti, sta crescendo è un ‘potere sociale’ che assume il controllo di tutti, togliendo autonomia e responsabilità ai singoli, i quali a loro volta delegano a questo potere la gestione della loro vita. Non si tratta di un problema solo italiano; né di un morbo che affligge solo la destra. È una tendenza dell’epoca nella quale si intrecciano dispotismo, plebiscitarismo, populismo, dinamiche di tipo carismatico. Per questo «il berlusconismo è una forma patologica della democrazia dei ‘moderni’; appartiene alla storia e alle metamorfosi della democrazia occidentale; e in questo senso, come oggi riguarda l’Italia, così può riguardare anche altre democrazie europee».

Di seguito la rencensione di Luciano Canfora, su Il Corriere della Sera del 7 febbraio, dal titolo

Che guaio la democrazia blindata
Il bipolarismo rigido aumenta i pericoli d’involuzione dispotica

S’intitola La democrazia dispotica un recente, rilevante saggio di Michele Ciliberto (Laterza). È un libro dotto e ben costruito, che riguarda le evidenti deformazioni, e si potrebbe ormai dire degenerazioni, del meccanismo rappresentativo-elettivo, identificato, nel linguaggio comune, con la «democrazia». Ciliberto si interroga sulla peculiarità, o meno, del caso italiano e dedica, tra l’altro, pagine meditate al fenomeno del «potere carismatico». Evoca i grandi nomi che su tale questione rifletterono, da Croce a Max Weber, in una temperie in cui tornava sempre al centro la questione delle questioni: il ruolo della personalità nella storia. Plechanov, Lenin, ma già ben prima Tolstoj in pagine fondamentali di Guerra e pace ne avevano dibattuto. Ma Ciliberto ha anche la saggezza di distinguere tra «carismatici» (da Bonaparte a Bismarck) e caudillos.

A mio giudizio, pur tra tanti pregi, questo libro, che è di assai piacevole lettura, muove da un presupposto ottimistico: che cioè davvero il blocco populista-opulento oggi al potere in Italia possa essere indotto, dalla controparte, a «condividere regole e valori prepolitici e preistituzionali». Un altro presupposto è che la questione non sia solo italiana: ai nostri interlocutori europei - scrive l’autore - dovremmo obiettare de te fabula narratur. Ma questo appare improbabile. Non si vede in Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna alcunché di simile ai nostri fenomeni degenerativi. E per giunta il nostro è il solo Paese europeo dove non esiste più un partito di massa di sinistra (avendo il Pd, per definizione e composizione, natura non più di sinistra ma di centrosinistra). Un terzo presupposto dell’autore è che il cosiddetto «bipolarismo» sia un bene da non intaccare («Bisogna mantenere l’opzione bipolare se si vuole mettere su solide basi la democrazia nel nostro Paese»). Questo presupposto sembra a me un cedimento agli idola fori, per dirla con Bacone. Il bipolarismo, infatti, essendo incardinato su leggi elettorali di tipo maggioritario (o del genere anglosassone, in cui «chi vince prende tutto» come alle corse dei cavalli, o del genere gollista «a doppio turno», mirante alla liquidazione delle ali «estreme»), produce - come risultato peraltro fortemente voluto - un esito, in termini di mandati parlamentari, sperequato, difforme e falsificante rispetto ai voti popolari. E dà perciò l’illusione che il cosiddetto vincitore abbia conseguito un vantaggio molto netto e preponderante («una larghissima vittoria elettorale»). Si determina dunque una illusione ottica, dalla quale converrebbe incominciare a liberarsi.

Quando si parla di «egemonia» berlusconiana nel nostro Paese, si trascura che essa è almeno in parte frutto per l’appunto di leggi elettorali fondate su «premi» e su consimili strumenti coniati ad hoc per falsare il risultato del voto popolare e regalare la maggioranza assoluta a chi ha conseguito soltanto quella relativa (che rispetto all’intero elettorato resta una minoranza). Non è privo di senso ricordare che il ministro Alfano, nel corso di una trasmissione (Ballarò) andata in onda, in piena bufera sessual-politica, lo scorso 18 gennaio, ha indicato, col consueto trasporto, quale primo merito del suo presidente del Consiglio avere questi «blindato il bipolarismo».

Oggi i sondaggi danno al blocco populista-opulento (Pdl+Lega) un 40 per cento delle intenzioni di voto, e questo - grazie alla legge elettorale - viene considerato, per lo meno per l’elezione della Camera, un buon margine di sicurezza per l’attuale blocco governativo. Vien da ricordare che nelle elezioni politiche del 1958 la Democrazia cristiana da sola conseguì il 42 per cento dei voti, contro il 22 del Pci e il 14 dei socialisti, e fu costretta, nonostante tale successo, ad avviare, assai riluttante, l’esperienza del centrosinistra (con il Psi e su sollecitazione dei partiti repubblicano e saragattiano). Un partito che da solo era al 42 per cento dei voti e degli eletti doveva, allora, trattare con forze politiche differenti e dar vita a soluzioni politiche che tenessero conto delle istanze di forze diverse, con le quali infatti si giungeva a un fecondo punto d’incontro (definito, con un pizzico di malafede, «consociativismo»). L’esatto contrario dell’astratto e ingegneristico, e al fondo «metastorico» e «metapolitico», bipolarismo.

Nello studiare la realtà politica italiana Ciliberto usa strumenti sofisticati. E questo è un altro pregio del libro, che si estolle di molto rispetto alla effimera ed esagitata pubblicistica politica che ci inonda quotidianamente in varie guise. Forse però l’autore vola troppo alto; mentre per un verso è efficace nel delineare la democrazia dispotica italiana e il suo principale attore, per altro verso, quando poi passa alla pars construens, sembra avere in mente un’Italia in cui miracolosamente il centrodestra ha quasi le fattezze del movimento finiano. Donde l’auspicio di una futura lotta politica condotta sulla base di solide, addirittura «preistituzionali», «condivisioni». E invece Ciliberto sa bene che l’attuale blocco populista-opulento, che sustanzia il «dispotismo democratico», «ha rotto con la tradizione, con l’antifascismo, con la religione civile dell’antifascismo». Questo dato rende molto problematiche quelle auspicate «condivisioni».

Un altro merito del saggio consiste nello studio del fenomeno «democrazia dispotica», considerato nelle sue affinità e nelle sue differenze rispetto a quel dispotismo democratico che Tocqueville intravide e delineò alla conclusione del saggio sulla Democrazia in America. Aggiungerei al «dossier» un’altra fonte. Un acuto osservatore novecentesco della realtà statunitense, il drammaturgo tedesco Bertolt Brecht, esule in Usa durante il nazismo, in una nota al suo Arbeitsjournal (Diario di lavoro, Einaudi) datata 7 febbraio 1942 osservò: «Un fascismo americano sarebbe democratico». Fulminante ed efficace definizione, nonché previsione che ci avvicina ancor di più al nocciolo della questione.

1 commento

  • 1 giovanissimo
    22 Febbraio 2011 - 09:36

    Professore ho letto quel libro che ritengo molto utile per capire la realtà odierna…però penso di fare di più …mi candiderò in qualche lista civica indipendnete per le prossime comunali..nel frattempo girerò per le strade di Cagliari e chiederò alla gente ed ai giovani i loro problemi (penso di conoscere i problemi dei giovani ma un ripasso non guasterà..) e la notte prima di andare a letto mi leggerò un bel manuale di Sandulli sulle amministrazioni degli enti locali in modo da arrivare preparato quando sarò eletto. :)

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