E’ giusto infangare chi indaga sui potenti?

19 Febbraio 2011
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Carlo Dore jr.

In un lungo articolo pubblicato sull’ultimo numero di Micromega, Giancarlo Caselli pone alcuni fondamentali interrogativi sul rapporto tra politica e giustizia: tre interrogativi che investono la fondamentale questione della determinazione del punto di equilibrio tra esigenza di verità e pretesa di immunità, tra regolare esercizio della funzione giurisdizionale (e dell’attività di indagine che ad essa si collega) e svolgimento dell’attività di governo, tra indipendenza della magistratura e esercizio del potere politico.
In ordine a questi temi, Caselli si domanda: «E’ giusto gettare pregiudizialmente dubbi o fango su un magistrato solo perché si occupa, senza ammiccamenti, di un personaggio pubblico? E, viceversa, è giusto applaudire, sempre a priori, il magistrato che gli dà ragione? Quando si tratta di personaggi di peso (di cui ci si deve occupare non certo per scelte legate al loro status, ma per questioni o fatti specifici) giustizia giusta è, per definizione, solo quella che piace e conviene? Ragionando in questo modo, non si sovvertono le regole fondamentali della giustizia? Non si incide sulla serenità di giudizio? Dove sta la linea di confine tra attacco e intimidazione?».
Curiosamente, le risposte più significative ai quesiti avanzati dal Procuratore della Repubblica di Torino sono pervenute da tre personaggi direttamente collegati all’attuale maggioranza di governo, come il giornalista Giuliano Ferrara, il sottosegretario Daniela Santanché ed il deputato Maurizio Paniz. Mentre Paniz si impegnava a dimostrare che la Camera dei Deputati doveva respingere la richiesta di perquisizione degli uffici di Giuseppe Spinelli (presunto “ufficiale pagatore” di Berlusconi per le “serate rilassanti” consumate tra Arcore e Palazzo Grazioli) in ragione della pretesa incompetenza della procura di Milano a indagare sul premier per un reato che egli avrebbe commesso nell’esercizio delle sue funzioni di governo, Ferrara e la Santanchè imperversavano per le strade di Milano in un turbinio di lingerie di varia foggia e dimensioni, inveendo contro i magistrati militanti, contro i giornalisti che razzolano tra le lenzuola presidenziali, contro gli intellettuali del Palasharp, la cui voce alta e libera è riuscita, almeno per una sera, a prevalere sull’untuosa ipocrisia che trasuda dal verbo minzoliniano. Toni da guerriglieri, trucco che si disfa, sudorazione ai livelli di guardia: sono oplites spediti nel fuoco dell’ultima battaglia, impegnati a mentire, a mistificare, a mettere in pratica ogni abuso in nome del supremo interesse del Capo.
Mentire, mistificare, abusare: la tutela della privacy viene invocata (paradossalmente, proprio da chi ha individuato nella iperpubblicizzazione del proprio ego la chiave di volta della sua perfetta macchina di decuplicazione del consenso) per coprire fatti che travalicano per forza di cose la sfera privata del Presidente del Consiglio. La privacy non può impedire ad un PM di attivarsi per accertare l’avvenuta consumazione di un reato, ancorché commesso da un uomo di Stato tra le mura della propria residenza dorata; la privacy non può impedire alla libera stampa di rilevare le anomalie di un sistema in cui le serate di un manipolo di attempati frequentatori del bel Mondo vengono utilizzate quale criterio di selezione della classe dirigente, con le veline di Villa Certosa catapultate di forza nel cuore delle Istituzioni; la privacy non può impedire agli intellettuali, agli scrittori, alla gente comune di manifestare rabbia e sana indignazione di fronte ai paradossi strutturali dell’unico sultanato del Mondo occidentale.
Menzogna e mistificazione costituiscono infatti i momenti di attuazione di un progetto di più ampio respiro: il progetto finalizzato a “normalizzare” l’abuso di potere, con le Istituzioni distorte nella loro funzione e costantemente asservite alle esigenze dell’Uomo solo al comando. Ed ecco allora rientrare in gioco Maurizio Paniz, il quale impone al Parlamento –chiamato ad accogliere o a respingere una richiesta di perquisizione – di sostituirsi alla Magistratura nell’individuare il giudice competente a decidere sulla colpevolezza o sull’innocenza del Presidente del Consiglio; ecco riapparire il fantasma del legittimo impedimento, norma ammazza-dibattimenti puntualmente agitata verso ANM e opposizione ogniqualvolta la posizione processuale del premier torna a farsi rovente; ecco materializzarsi la disposizione che abbrevia ulteriormente i termini di prescrizione per gli incensurati, ennesimo cadeau ad personam volto a garantire l’impunità del solito imputato eccellente.
La linea tra attacco e intimidazione è stata, in questi giorni, superata più volte: dal triste tentativo di rimestare tra le amicizie giovanili della Boccassini o tra i calzini turchesi del giudice Mesiano; dalle invettive sparate contro il cielo grigio di Milano da una pattuglia di anziane pasionarie impellicciate ed infreddolite, dai video-messaggi con cui il vecchio Cavaliere minaccia ritorsioni verso i magistrati impegnati in procedimenti scomodi, proponendoli agli occhi dell’opinione pubblica come il braccio armato della sinistra giustizialista. Ma Berlusconi evidentemente ignora il passaggio conclusivo della riflessione di Caselli: «Il principio di legalità, l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l’efficienza della giustizia non sono questioni di destra o di sinistra. Sono questioni di cui tutti dovrebbero farsi carico», se non si vuole che il confine tra attacco ed intimidazione venga cancellato per sempre. Se non si vuole che l’ennesima legge ad personam spazzi via anche l’unico reato da cui il premier non è finora riuscito a discolparsi: quello di omissione contro la democrazia.

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