Marco Revelli
Oggi a Mirafiori non si decide soltanto sulla vicenda Fiat. Si decide della costituzione materiale dell’Italia. E’ stata battuta col referendum costituzionale del 2006 l’eversione della Costituzione proposta da Berlusconi e Bossi, oggi si seguono altre vie. Da Pomigliano a Mirafiori, al pesstaggio dei pastori sardi e tanti altri espisodi l’offensiva autoritaria del regime del ricatto si estende a tutto il Paese. Col referendum di Mirafiori le forze politiche ed ecomomiche dominanti vogliono sancire una nuova costituzione materiale fondata sulla diseguaglianza e sul predominio del capitale in palese contrasto con la Costituzione formale che fonda la nostra Repubblica democratica sul lavoro e sull’eguaglianza. Vengono violate e mutate anche le norme sulla rappresentanza e sulla libertà sindacale.
La particolarità sta nel fatto che questa eversione della Costituzione antifascista ha il sostegno non solo delle forze anticostituzionali o acostituzionali storiche, ma anche di gran parte delle rappresentanze economico-sindacali e perfino delle forze politiche di opposizione, compresa una larga fetta del PD. Dunque, intorno ad un regime fortemente segnato dalle pulsioni antiegualitarie e antilavoro si coagula un vasto fronte che concorre a determinare l’abrogazione di fatto della nostra Carta costituzionale. Ed è significativo che su una questione così rilevante i lavoratori di Mirafiori siano lasciati soli e di fronte ad un vero e proprio ricatto. C’è una sproporzione manifesta fra l’oggetto della decisione e il corpo dei votanti.
Tutto questo pone degli interrogativi angosiosi sul futuro del nostro Paese, sulle condizioni di vita non solo degli operai, ma anche del ceto medio in caduta libera. Insomma, è in pericolo la tenuta democratica dell’Italia e, dunque, c’è bisogno di un nuovo impegno di tutte le forze costituzionali sempre meno rappresentate sul piano politico e sindacale.
Su questi temi Marco Revelli ha prodotto alcune delle riflessioni più interessanti coi suoi libri e i suoi articoli su giornali e riviste. Da cadoinpiedi.it riprendiamo questo suo scritto, che ci pare particolarmente illuminante (a.p.).
L’accordo recente su Mirafiori ricalca nelle sue linee generali quello di Pomigliano. Come per Pomigliano, appunto, la Fiat e i sindacati favorevoli alle nuove regole, hanno rivisto la riorganizzazione del tempo di lavoro, i turni, le pause, i diritti. Per Mirafiori, però, penso che addirittura ci sia stato un peggioramento su un punto sostanziale che è stato determinato dall’uscita della FIAT di Marchionne da Confindustria: quello che riguarda la rappresentanza sindacale in fabbrica. Col nuovo accordo non potranno essere rappresentati i lavoratori della Fiom, la rappresentanza aziendale sarà decisa dall’alto, dalle organizzazioni sindacali e solo da quelle che hanno firmato l’accordo. Questo è un punto di peggioramento ulteriore rispetto già all’accordo di Pomigliano.
Avevo definito l’accordo di Pomigliano un atto che reintroduceva la dimensione servile del lavoro, un arretramento non solo rispetto agli anni più recenti, al periodo della democrazia industriale, ma un arretramento rispetto al capitalismo nel suo complesso. Il capitalismo ha anche rappresentato il riconoscimento della persona al lavoro, il superamento della dimensione servile del lavoro. Qui, invece, il lavoro ritorna a essere separato dai diritti del cittadino, da quei diritti garantiti dalla legge, dalla costituzione e dalla civiltà giuridica di un Paese.
L’impresa si definisce in una dimensione di extraterritorialità, come se vivesse in uno spazio diverso da quello del Paese, degli stati, della loro legislazione etc. e tratta il lavoro come risorsa pienamente disponibile senza il riconoscimento della soggettività, della dignità dei soggetti che lavorano.
Per quanto riguarda le recenti dichiarazioni del candidato in pectore a sindaco di Torino, Piero Fassino, stenderei un velo pietoso. Sono atteggiamenti e dichiarazioni che fanno cadere le braccia. Su una vicenda decisiva per quanto riguarda la civiltà del lavoro, trovo desolante la posizione del Partito Democratico di cui Fassino è un degno esponente. Questa formazione, questa organizzazione che rappresenta un nulla politico, tuttavia produce gravissimi danni nel momento in cui questo ceto politico che ha, quantomeno le sue origini, radici nel mondo del lavoro che dovrebbe in qualche maniera essere sensibile alla dignità del lavoro, invoca esplicitamente atteggiamenti che contraddicono nettamente il principio della dignità del lavoro e dei lavoratori.
Non metto in discussione un lavoratore di Mirafiori schiacciato da una situazione economica per certi versi drammatica, con alle spalle mesi di cassa integrazione, con difficoltà estrema a raggiungere la fine del mese, con magari il mutuo da pagare. Non discuto la scelta di un lavoratore preso per la gola da un padrone onnipotente in grado di scegliere la localizzazione del proprie produzioni, di andarsene in Serbia o in Turchia, piuttosto che a Torino. Che un lavoratore in queste condizioni voti sì, lo capisco pienamente. Ma un esponente politico proveniente dal movimento operaio che se ne esce con una dichiarazione di questo tipo, che contraddice qualsiasi principio di rispetto della persona umana, è uno spettacolo indecoroso.
Come rispondere al “ricatto” della delocalizzazione? Si risponde guardando quello che succede in paesi come la Germania o come la Francia in cui questo tipo di ragionamento non ha molto spazio. Il sindacato e gli operai tedeschi hanno ceduto su alcuni punti, hanno accettato di fare alcuni sacrifici, non hanno mai rinunciato alla propria dignità e ai propri diritti, hanno dei salari che sono di un 30/40% a volte anche 50% superiori a quelli dei lavoratori italiani, hanno un’imprenditoria che ha giocato le proprie carte non nei gironi più bassi del mercato internazionale a un alto livello con buoni investimenti di ricerca e sviluppo, con innovazione tecnologica, con una maggiore dignità dell’imprenditoria e dei sindacati.
In Italia manca la dignità degli imprenditori e dei sindacati. Marchionne fa l’americano. Si diceva che la FIAT si era comprata la Chrysler, è invece evidente che è la Chrysler che si è annessa alla FIAT. La localizzazione in Italia è una variabile dipendente da quello che si decide a Detroit e noi siamo una colonia.
1 commento
1 Michele Podda
14 Gennaio 2011 - 17:41
Caro direttore,
intervengo perchè tu concordi con Revelli, in quanto di lui non so e non mi frega di sapere chi è.
Tralascio qualunque considerazione sulla tua introduzione, che rappresenta posizioni note. Sorvolo anche sui primi tre capoversi dell’articolo, che ribadiscono affermazioni note e trite, e nulla aggiungono.
Osservando nvece il quinto capoverso (sì, V cp.), perchè nel quarto c’è il nulla assoluto (parole vuote), vorrei dire che:
Non ho mai nutrito grande ammirazione per Fassino (che farebbe il paio con Veltroni, nel senso di OSSO-POLPA); ma che egli venga condannato (una dichiarazione di questo tipo… è uno spettacolo indecoroso) perchè difende un lavoratore CHE VIENE CAPITO dall’autore dell’articolo (Non metto in discussione…Non discuto la scelta…Che un lavoratore in queste condizioni voti sì, lo capisco pienamente!), beh, questo io non lo capisco affatto; solo i bizantinismi di gesuitica memoria potevano arrivare a tanto.
Proseguendo nella lettura, al sesto capoverso (VI cp.) finalmente si fa sul serio e si arriva al dunque, con la drammatica domanda carica di aspettative: “Come rispondere al ricatto della delocalizzazione?”
Uno pensa: occupazione delle fabbriche; requisizione da parte dello stato e consegna a tutti i lavoratori; acquisto delle fabbriche da parte di imprenditori progressisti; intervento del Vaticano; oppure semplicemente: i lavoratori cedono su qualcosa e tengono duro su altro.
Macchè! Niente di tutto questo. In Germania e Francia “questo tipo di ragionamento non ha molto spazio;… gli operai tedeschi … non hanno mai rinunciato… hanno dei salari che sono di un 30/40% a volte anche 50% superiori … hanno un’imprenditoria …a un alto livello, con buoni investimenti di ricerca e sviluppo, con innovazione tecnologica, con una maggiore dignità…”.
Caro Direttore, qual’è dunque la risposta?
Chiedo scusa, or ora son pervenuto ad essa, ascosa in quattro righe, le ultime, del capoverso sette (VII cp.): DIGNITA’!
L’uovo di colombo, la soluzione di tutti i problemi.
Ma, se lo dice Revelli, lo posso dire anch’io: per favore, UN PO’ DI DIGNITA’!
Di tutto l’articolo, mi risollevano le ultime quattro parole: “noi siamo una colonia”. Che sia perchè le avevo già sentite qui da noi, o che sia perchè è un mal comune, è indifferente.
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