Poveri noi!

17 Gennaio 2011
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Marco Revelli

Fanno venire i brividi le cifre indicate da Marco Revelli nel suo ultimo libro “Poveri, noi” (Einaudi, pp. 127, euro 10,00). Tanti, tantissimi numeri che stanno però ad indicare una sola cosa: che l’Italia è un paese in piena decadenza, dove la povertà è in continua crescita, dove la gente è spaesata, dove malgrado il vergognoso arricchimento di pochi i penultimi se la prendono con gli ultimi e dove la politica ha mostrato la sua faccia più immorale.
Insomma, l’Italia non è come ce la raccontano: abbiamo creduto di crescere e stiamo declinando, la nostra presunta «modernizzazione» è un piano inclinato verso la fragilità e l’arretratezza. E nello spazio sempre piú ampio che si apre tra presunto benessere e fatica quotidiana del vivere crescono l’invidia, i rancori, le intolleranze.
Nel clima di crisi globale, anche in Italia stanno venendo alla ribalta questioni come l’impoverimento del ceto medio e le disuguaglianze crescenti, e tuttavia il racconto prevalente continua a rassicurare sulla tenuta complessiva del nostro Paese, sia dal punto di vista economico che sociale. Paadigmatica è in questo senso la vicenda di Mirafiori, dove, a fronte di un Marchionne che guadagna quanto tutti i lavoratori messi insieme, un accordo che toglie ai lavoratori anche il diritto di sciopero (oltre a quello di pisciare durante il lavoro) viene fatto passare dai media e da gran parte del mondo politico-sindacale come fatto di “modernizzazione”.
Marco Revelli ha un’opinione diversa. Utilizzando le statistiche ma anche le storie di cronaca, raccontando la difficile realtà dell’economia e della povertà ma anche le emozioni che corrono sotto la superficie visibile sui mass media, in questo libro Revelli ci mostra un’Italia terribilmente fragile, in cui molti, caduta la speranza di migliorare le proprie condizioni, cercano un effimero risarcimento a danno degli ultimi, spingendoli sempre piú giú, sempre piú ai margini. Un Paese in cui i fondamenti della convivenza civile e forse della stessa democrazia sono erosi dalle disuguaglianze e dal modo in cui la politica, invece di attenuarle, cavalca i risentimenti e il rancore da esse generati. Un Paese in cui «forse per la prima volta nella storia il motto del Boccaccio: “Solo la miseria è senza invidia”, non è piú valido».
Insomma, per chi vuol capire il nostro tempo “Poveri noi” è un libro da non perdere.
 Sul volume pubblichiamo un’intervista all’autore di Vittorio Bonanni apparsa su Liberazione del 12/12/2010.
Quando comincia in Italia questa terribile deriva, che mette a repentaglio la nostra stessa democrazia?
Il periodo nel quale siamo cambiati può essere individuato nell’ultimo quarto di secolo. Siamo cambiati da tanti punti di vista: quello sociale, economico, etico e politico. E’ un Paese nel quale, e lo dico all’inizio del libro, noi ci siamo alzati, ci siamo guardati allo specchio e non ci siamo riconosciuti più. Un Paese il nostro sfigurato dal rancore, dall’ostilità reciproca, dalle solitudini, dalla frustrazione, dall’invidia sociale e così via.

Tutti elementi assenti nell’Italia repubblicana fino agli anni ‘70….
L’antropologia della Prima repubblica era totalmente diversa. Le ragioni di questa trasformazione sono tantissime. Io ne focalizzo una che potrebbe essere sintetizzata nel concetto di deprivazione. Che è un concetto più ampio di povertà, e più vicino a quello di impoverimento, dando a questo termine un ventaglio esteso di significati. Deprivazione monetaria ed economica sicuramente, ma anche deprivazione rispetto a tanti altri beni che si possedevano e non si possiedono più o si posseggono in misura minore. L’identità, uno status sociale, un sistema di diritti, l’orgoglio della propria appartenenza sociale. Anche avere una rete di relazioni, un buon rapporto con il proprio luogo, con il proprio territorio come si chiama adesso. Su tutti questi terreni i diversi pezzi della società italiana hanno perso qualcosa. L’immagine che do degli ultimi due decenni e mezzo è il piano inclinato.

Insomma siamo arretrati…

Senza dubbio. Abbiamo perso un gran numero di posizioni rispetto ai nostri paesi pari. Una ventina di punti percentuale rispetto al nostro posizionamento relativo in Europa. Eravamo appunto venti punti sopra la media dell’Europa a 27 all’inizio degli anni ‘90, siamo ora sul pelo dell’acqua, vicini allo zero. E la cosa peggiore è che questo declino è avvenuto dentro un involucro costruito dalle retoriche dell’ottimismo. Dentro l’autoproclamazione della modernizzazione felice, dentro la fantasmagoria dell’ipermodernità. Come se ci fossimo lasciati alle spalle la zavorra del ‘900, e dunque l’età industriale, l’epoca fordista con tutte le sue caratteristiche, i suoi blocchi sociali, le identità forti, i grandi stabilimenti. E anche le ideologie. Come se abbandonata quella zavorra potessimo volare alto nel consumo opulento senza renderci conto che invece stavamo scendendo. Dentro questa forbice cresce la bolla del rancore.

Nel libro emerge bene la responsabilità di una classe imprenditoriale quasi premoderna, precapitalistica, attenta solo ad arricchirsi e poco propensa ad investire. Ma anche la politica ovviamente ha le sue colpe. Chi mettiamo prima sul banco degli imputati?

Il libro analizza le varie classi sociali, la condizione operaia con l’emergere dei working poor, di questa figura inedita del povero al lavoro. Il declassamento della classe media è stato violento soprattutto negli ultimi dieci anni e sono in parte lì i nuovi poveri che danno vita alla cosiddetta “povertà occulta”. Che non si vede perché ci si continua a vestire con gli stessi abiti di prima, della middle class, pur vivendo in una condizione di miseria. E poi i giovani, che sono i veri massacrati dalla crisi in particolare negli ultimi anni. Su tutto questo, per rispondere alla domanda, pesa una enorme responsabilità dell’imprenditoria italiana. Forse in Occidente la più avara. Una classe imprenditoriale che dagli inizi degli anni ‘80 fino alla metà del decennio in corso, ha visto crescere in misura esponenziale i propri profitti. E la quota di pil destinata ai profitti rispetto a quella destinata ai salari. C’è stata una trasmigrazione massiccia di ricchezza collettiva dal monte salari appunto ai profitti. Dalle tasche dei lavoratori ai bilanci delle imprese. Parliamo di otto punti di prodotto interno lordo, che vuole dire qualcosa come 120 miliardi di euro ogni anno che non entrano più nelle case di chi lavora.

Il segno di una rivincita.

E di una straordinaria vittoria sociale che il capitale ha consumato sul lavoro e che ha una data precisa in Italia, l’autunno 1980, quando c’è stato un punto di svolta e il rapporto di forza si è rovesciato. Da allora le imprese hanno avuto anni di straordinarie vacche grasse, con una crescita molto elevata dei guadagni a cui ha corrisposto addirittura una diminuzione della percentuale dei profitti destinati agli investimenti. Guadagnavano di più e investivano di meno. Nella dimanica degli investimenti dei paesi Ocse siamo al fondo della graduatoria. Insomma la loro avarizia è la prima responsabile del declino. E la politica ne è il perfetto omologo. Il degrado del nostro tessuto imprenditoriale fa leva sulla logica del familismo amorale, da microimpresa familiare. Vive di sotterfugi, di espedienti. E vive soprattutto umiliando la propria forza lavoro costringendola a livelli di precarizzazione insopportabili, indecenti. Venendo alla politica, Berlusconi è, per certi versi, nella sua struttura immorale, l’emblema di questa borghesia animata da forme di familismo immorale. Ma Marchionne è l’altra faccia di questa medaglia e rappresenta la totale irresponsabilità sociale dell’impresa. Di fronte a tutto questo un’opposizione che balbetta, per usare un eufemismo. Eppure basterebbe leggere le cifre che riporta “Poveri, noi” per capire che c’è bisogno di una svolta radicale. Credo che la sinistra sia uscita dalla società in questo quarto di secolo. E anche qui è emblematico l’autunno ‘80. Dal giorno dopo, dal novembre di quell’anno, la sinistra ha incominciato ossessivamente ad interrogarsi su come salvare se stessa dal naufragio del proprio insediamento sociale. Su come sopravvivere alla sconfitta dei propri rappresentati.

La pura salvaguardia di un ceto politico…

Certo. Come il comandante che nel naufragio abbandona la nave per primo invece che per ultimo. Una prova di assoluta mancanza di coraggio. Me li ricordo allora i leader di una sinistra ancora molto forte! L’unico che ebbe una forte carica di dignità fu Berlinguer, ma tutti i suoi colonnelli consumarono il proprio 8 settembre con una fuga ingloriosa. Assumendo il linguaggio dell’impresa, assumendo il punto di vista del management, e di un management che oltretutto si stava degradando. Pensiamo a che cosa è stata la Fiat di Romiti. Tutti la presentavano come il rinnovato miracolo e invece era l’inizio della fine dell’industria torinese per eccellenza, con l’avvio della finanziarizzazione e l’abbandono della centralità della produzione. Con la sinistra che non riusciva neppure a leggere i processi sociali in corso ed è stata tutta dentro la grande narrazione degli altri. L’Italia con cui pensava di misurarsi era l’Italia raccontata da Berlusconi. Quella di Publitalia. Mentre la sinistra radicale si chiudeva dentro le autorappresentazioni precedenti senza a sua volta tentare di misurarsi con le sfide del postfordismo. Pensando che alla diserzione degli altri bastasse contrapporre le vecchie maniere. Per cui l’Italia è cambiata senza una funzione di autorappresentazione di quello che avveniva. Senza che filtrasse nella sfera della politica anche solo la nozione di cosa stava avvenendo. Un declino senza racconto. Anzi, un declino che si è consumato nel racconto apologetico dell’ipersviluppo mentre si consumava una decadenza.

Domanda scontata ma d’obbligo. Come si esce da questo baratro?

Si esce guardando in faccia la realtà. Incominciando a fare i conti con il linguaggio noioso ed arido dei numeri, delle cifre, dando loro un significato e smettendola di raccontarsela. E questo vuole dire prendere le misure ai problemi e non ovviamente averli risolti. Dando tanto per cominciare un corso legale al concetto di redistribuzione. L’ultima parte del libro è proprio dedicata a questo. Agli enormi guasti antropologici prodotti dalla rinuncia pressocché unanime, tranne qualche microfrazione, all’idea e alla possibilità di redistribuire la ricchezza, ovviamente dalla punta della piramide al fondo. Combattendo il meccanismo che fa cercare l’inclusione attraverso l’esclusione di chi sta più in basso. Con l’invenzione dei sottouomini perché gli uomini a cui sono stati tolti i diritti possano continuare a sentirsi tali. Questa guerra tra poveri, o dei penultimi contro gli ultimi, la disinneschi se fai ripartire l’ascensore sociale. Se ricominci a pensare alla possibilità di togliere ai primi per dare agli ultimi. Altrimenti non se ne esce. E ci sarà sempre la ricerca da parte dei deprivati di un risarcimento attraverso le retoriche del disumano. Cioè attraverso le scariche di odio selettive. Che è quello che ha fatto e sta facendo la Lega. Gestore di serbatoi dell’odio, utilizzati in microsituazioni di territorio, nel comune, nel quartiere. «Hai perso i diritti - dicono rivolgendosi ai loro cittadini - ma tu sei un uomo mentre il rom non lo è». Magari hai il mutuo che ti scade, i tuoi figli non hanno un posto all’asilo, ma la colpa è di chi ci sta un po’ sotto e di chi ha un po’ meno di te. E non di chi sta sopra.

1 commento

  • 1 Michele Podda
    17 Gennaio 2011 - 10:30

    Caro Direttore,
    non ci vogliono tanti numeri, per capire che siamo poveri. E lo sappiamo bene in particolare noi sardi (ma anche nella penisola non ridono!), e gli abitanti dell’Iglesiente, gloriosa terra in cui, fin dall’antichità, convivevano pastori, operai, contadini e persino pescatori.

    No, non c’è davvero gran bisogno di numeri, per percepire decadenza e povertà, e una terribile INSICUREZZA che penetra anche fra chi, come noi “intraos in tempus”, può ancora “godere” del privilegio di pensioni e stipendi d’altri tempi; non foss’altro per il futuro dei nostri figli, ma anche per noi stessi, perchè si sta concretizzando l’idea che la struttura sociale possa di colpo sbriciolarsi come un fragile castello di carta.

    Non tutti è vero, perchè ci sono come sempre gli avvoltoi che speculano proprio su tale malessere, pochi eletti (anche eletti, certo!) che, non soddisfatti dello status manifesto, si affaccendano per evadere, esportare o trafficare nei modi più svariati.
    E’ vero, il tentativo della TV (perchè è quella che conta) di rassicurare, proponendo il solito mondo scintillante, affollato di nani, calciatori, ballerine e cotillons; ma ancora per poco potrà avere effetto, e in breve la dura realtà penetrerà nelle pupille, per deformate che siano. E saranno guai.

    Forse il tanto vituperato Medioevo, ai tempi di Boccaccio presentava, fatte le dovute proporzioni, condizioni meno traumatiche; per cui potrebbe essere più realistica l’immagine del buon Manzoni, che ha ben rappresentato la povera gente con i “polli di Renzo”.
    Il problema, è vero, è la politica. Perchè anche in questo caso, per trovare soluzioni possibili, bisogna partire dalla testa. Ma bisogna arrivarci.

    In quanto al libro di Revelli, non credo che durerò la fatica di leggerlo, anche perchè le mie convinzioni sono già ben espresse nella tua introduzione; si può “scendere” oltre?
    Anche il momento propositivo non rivela “soluzioni magiche”: REDISTRIBUIRE è facile a dirsi, ma lo stpendio di Marchionne è difficile da intaccare.
    Per cui non ci resta che inventare “sottouomini”. Anche noi sardi siamo capaci di farlo; perchè un vecchio detto sentenzia:
    “In mesu ‘e tzecos, biadu a chi jughet un’ocru”.

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