Elogio delle frontiere

12 Gennaio 2011
1 Commento


Tahar Ben Jelloun

Régis Debray colpisce ancora. Sempre controcorrente, in piena globalizzazione o, come dicono i francesi, mondializzazione, ora  l’intellettuale d’oltralpe tesse l’elogio dei confini. Ma lo fa con intelligenza e senza tradire i suoi convincimenti di uomo democratico e di sinistra. Vuole le frontiere non per chiudere, ma come strumento di apertura e di pace. L’argomento è molto attuale ed è nella bocca di molti. D’altronde, anche i costituzionalisti democratici più avvertiti hanno sempre messo in guardia sulla affermazione di obsolescenza degli Stati. Infatti, mentre le Costituzioni che più efficacemente tutelano i diritti fondamentali sono statali e presidiate dalle giurisdizioni nazionali, nel mondo globale il “diritto” è fatto dalle grandi multinazionali e non esiste alcuna effettività nella tutela dei diritti dell’uomo. La frontiera dunque può diventare spesso anche un argine o un riparo per i più deboli. 
Come si vede, un tema intrigante, meritevole di approfondimento.
 Per stimolare la riflessione pubblichiamo pertanto la presentazione del libro di Debray ad opera di Tahar Ben Jelloun, apparsa su L’Espresso del 10 dicembre scorso.
Tahar Ben Jelloun (in arabo: طاهر بنجلون; Fes, 1º dicembre 1944) è uno scrittore marocchino, impegnato nella lotta contro il razzismo. Ecco una suo pensiero:

« Non incontrerai mai due volti assolutamente identici.
Non importa la bellezza o la bruttezza: queste sono cose relative.
Ciascun volto è simbolo della vita. E tutta la vita merita rispetto.
È trattando gli altri con dignità che si guadagna il rispetto per sé stessi. »

(Tahar Ben Jelloun)

Ecco ora la riflessione dello scrittore marocchino.  

Chi prima chi dopo, tutti hanno decantato un mondo senza frontiere, idea liberale che si è fatta strada prima in Francia e poi in Europa dopo la rivoluzione del maggio 1968. Allora si moltiplicarono slogan del tipo “Vietato vietare”, oppure, “Niente è impossibile, immaginazione al potere”. Di colpo, l’idea di abolire le frontiere tra i popoli diventò un’utopia che la pubblicità ha fatto subito sua. Un’agenzia di viaggi scelse di chiamarsi Senza frontiere, e nacquero associazioni umanitarie denominate in modo analogo, per esempio Medici senza frontiere.
L’immagine di un pianeta senza frontiere è affascinante. Quando una casa non ha più porte, però, vi entrano parimenti il bello e il brutto, il pulito e lo sporco, il ladro e il santo. Da qui il concetto molto chiaro di confine. Il filosofo francese Régis Debray ha appena pubblicato un manifesto nel quale fa l’”Elogio delle frontiere” (edizioni Gallimard). A prima vista, c’è di che restare sbalorditi: come è possibile che questo spirito così intelligente, impegnato e umano difenda i confini e i portoni? Dopo aver letto il libro, in ogni caso, si comprende meglio la sua idea di fondo, che è sintetizzabile in poche righe: “La frontiera è da intendersi come un vaccino contro l’epidemia di muri, come un rimedio all’indifferenza e una salvaguardia dei vivi”.
Vien fatto di pensare a quei conflitti che si protraggono da tanto tempo, che hanno per motivo scatenante o obiettivo il semplice fatto di tracciare delle frontiere. Questo è il caso dell’interminabile conflitto, sempre più aggrovigliato, tra Israele e Palestina. Se ci fossero delle frontiere, vorrebbe dire che esiste uno Stato, un Paese riconosciuto nei suoi confini. Il problema ricorrente di questo conflitto, tuttavia, è proprio che Israele non vuole che i palestinesi abbiano frontiere, in altre parole uno Stato. Régis Debray cita Uri Avnery, il militante israeliano di Pace adesso: “Che c’è al cuore stesso della pace? Una frontiera. Quando due popoli vicini fanno pace, si accordano prima di ogni altra cosa su un confine tra loro”. Ricorda al contempo un altro modo ancora di vedere il problema, il punto di vista di Golda Meir che diceva: “Le frontiere sono là dove si trovano gli ebrei, non là dove c’è una linea disegnata sulla carta”. Quando non ci sono frontiere, si innalzano muri. Israele l’ha fatto. Un muro non è una frontiera, bensì una barriera, un respingimento, un’esclusione. Nel muro non vi sono porte né finestre. Soltanto cemento e odio. Paura e ignoranza.
È interessante leggere questo manifesto che va controcorrente nel momento stesso in cui, grazie alle nuove tecnologie dell’informazione, abbiamo l’illusione di essere ovunque, siamo in collegamento diretto con il pianeta intero, sappiamo in tempo reale che cosa accade tra Corea del Nord e Corea del Sud, ciò che rende Haiti un’isola maledetta da Dio e dagli uomini, se il nostro amico lontano è felice o malato e così via. Essere connessi, però, non vuol dire che le frontiere sono state abolite; né che esista complicità tra i popoli. Tutto ciò resta a livello di semplice giochetto. Fa piacere restare in contatto con un amico di cui si erano perse le tracce, ma in definitiva tra lui e noi ci sono dei confini. Come dice Paul Valéry, “Quel che c’è di più profondo nell’uomo è la pelle”. La pelle, infatti, è proprio ciò che racchiude il nostro corpo, che ci separa dagli altri. E, come si dice comunemente, tutti noi teniamo alla nostra pelle.
Quando non si conoscono i propri limiti, non si sa più chi si è. È una questione di identità. Un popolo la cui identità è indistinta, non radicata nella terra di un Paese, è un popolo sventurato. Sapere chi si è, da dove si proviene, in quale ambiente si è vissuto e dove si è andata costruendo la propria storia è fondamentale per poter vivere con gli altri. Un popolo - come il popolo algerino - che è stato colonizzato per 5 secoli dagli ottomani, poi occupato per 130 anni dalla Francia e in seguito ha combattuto una guerra eroica di liberazione con oltre un milione di morti, fa fatica a riscoprire la propria identità. Questo potrebbe spiegare il persistere dei movimenti terroristici che prendono a pretesto l’Islam. L’Algeria è in procinto di recuperare la propria identità, ma mantiene chiuse le proprie frontiere con il vicino Marocco. In questo caso si tratta di un eccesso di frontiere, il che equivale a un rifiuto a comunicare, a risolvere i conflitti rimasti in sospeso tra i due Paesi.
Questo elogio delle frontiere si presenta come un diritto dei popoli. Dopo tutto, se la frontiera è ciò che garantisce la loro integrità territoriale, occorre difenderla non come una linea di ripiegamento, bensì come una possibilità di apertura, sapendo che ogni singolo individuo è un invitato, non un invasore, né un contrabbandiere.
(traduzione di Anna Bissanti)

1 commento

  • 1 Michele Podda
    12 Gennaio 2011 - 11:48

    Forte!
    Un chiaro esempio di che cosa può essere “apertura mentale”, possibilità di uscire dai luoghi comuni, di ragionare a mente libera, guardando le cose con semplicità e immediatezza, senza pregiudizi di alcun genere, a cominciare da quel che si trova a un palmo dal nostro naso, anzi, a contatto “con la nostra pelle”.

    Talvolta abolire le frontiere significa mettere in un ring un gigante con un nano: quel che ho sempre pensato per Italia e Sardegna, o Lingua italiana e Lingua sarda, oppure le culture (le identità) o le attività economiche.

    Prudenza quindi nel “trinciare giudizi”, umiltà nel prendere in esame proposte apparentemente irrealizzabili, disponibilità persino…a trattare di INDIPENDENTISMO.

    Potrei dire anche “equilibrio, nell’analisi della questione Fiat”, ma a questo ci penseranno prima di tutto coloro che sono a diretto contatto con essa. Perchè i più adatti a trovare soluzioni sono SEMPRE i diretti interessati, sopratutto.

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