Lanfranco Pace
Su “Il Foglio” del 4 scorso, nella rubrica “Diario di Pace”, curata da Lanfranco Pace, c’è un’analisi del caso Battisti fuori dal coro. La sua lettura ci ricorda che il nostro è il paese di Cesare Beccaria. Per questo lo (ri)pubblichiamo volentieri.
Tutto sommato il più sobrio è stato Frattini: il ministro degli Esteriha provato, senza successo, a fare il piedino a Dilma Roussef, ha annunciato un ricorso inutile all’Alta corte brasiliana e successivamente un latro, altrettanto inutile, al Tribunale dell’Aja. Altri ministri e dirigenti politici invece si sono messi a farla fuori dal vaso, allegramente. Alcuni parteciperanno oggi alla manifestazione indetta dai familiari delle vittime davanti all’ambasciata brasiliana, dimenticando che sono pur membri di un governo della repubblica italiana e che il Brasile rimane, fino a prova contraria, un grande paese amico. Altri chiedono ritorsioni, niente di meno che commerciali, un must per la nostra economia e per i tempi che corrono.
Italo Bocchino che da quando ha mancato la spallata, invece di tuonare non riesce ad andare al rapido ruttino all’aglio, ha intimato al premier di volare a Brasilia e minacciare la fine delle relazioni commerciali tra i due paesi, senza “portarsi dietro i calciatori brasiliani del Milan come fece l’altra volta”. Bossi vuole che anche il pur minimo chiodo made in Brazil rimanga invenduto, rimanga a marcire nei retrobottega padani. Altri vogliono che siano boicottati libri, fil, e dischi di coloro che hanno firmato per la liberazione di Battisti, bei nomi non c’è che dire, da Vauro a Fred Vargas e Bernard-Henri Lévy. Non si trattasse del solito palazzo en-folie, ci sarebbe da preoccuparsi. Nessuno che abbia il coraggio di ricordare che il Brasile non è il solo paese ad averci sbattuto la porta in faccia, che ci sarà pure un perché se Gran Bretagna, Canada, Svezia, Nicaragua, Algeria, Grecia, Svizzera, Giappone ci hanno detto no, se la Francia, primo paese a dare accoglienza ai rifugiati negli anni di piombo, ha rifiutato nove richieste di estradizione su dieci, e per quella concessa ancora chiede perdono al mondo, se ci hanno detto no paesi di consolidata democrazia o repubbliche dall’incerto diritto, se la decisione ci è stata sfavorevole a volte anche in deroga a trattati o convenzioni bilaterali. O grazie a interpretazioni forzate, capziose, come quel riferimento all’aggravarsi delle condizioni personali che pare abbia motivato la decisione dell’ex presidente Lula. C’è una costante nella reazione di questi paesi: quando vedono arrivare dall’Italia le richieste di estradizione si mettono le mani nei capelli. Nemmeno col sangue riusciamo a scrollarci di dosso l’immagine di interessati costruttori di arzigogoli e cavilli. Non si è mai trattato, da parte degli altri paesi, di stabilire se gli assassini siano simpatici o meno, pentiti o meno del loro crimine. MA solo se l’ordinamento italiano sia compatibile con l’idea che hanno di ordinamento democratico, se vi siano stati eccessi di legislazione speciale, se i processi avvengano in tempi ragionevoli, dando tutte le garanzie agli imputati, se i tribunali siano giusti, le condanne motivate da prove che non siano solo circostanziali, le sentenze scritte in modo chiaro. Infine se i detenuti non siano passibili di regimi speciali particolarmente punitivi. Così non è, ancora, in Italia. Allora con chi ce la prendiamo ?
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