Gianluca Scroccu
“La storia della mafia non è la storia dell’Italia, ma dentro la storia di Cosa Nostra c’è molto dell’Italia”. Questa frase del curatore Gaetano Savatteri sintetizza bene il senso del libro-intervista di Salvatore Lupo “Potere criminale” - Intervista sulla storia della mafia (Laterza, pp. 191, € 12). Docente di storia contemporanea all’Università di Palermo, già autore di una fondamentale storia della mafia e di ricerche importanti sul fascismo e il sistema dei partiti nell’Italia repubblicana, con le sue risposte lo storico siciliano delinea una storia di Cosa Nostra che spicca per la sua originalità e il tentativo di non fermarsi ad un’immagine stereotipata da superare, a partire dalla figura di Provenzano che avrebbe tirato le fila di questo potere criminale da uno sperduto casolare mangiando cicoria. E così più che grande vecchio, la funzione dell’ultimo dei boss dei corleonesi, oltre a quella di mediatore tra le varie fazioni, sarebbe stata quella di un “fornitore di servizi criminali” dentro il territorio isolano. Una mafia interclassista, con dei “valori” associativi criminali ma forti, irrobustita da un profondo collante religioso, capace di aumentare il proprio potere in momenti di crisi istituzionale. Non impresa, perché non vi è nessun interesse sociale o imprenditoriale in un’attività che ha la sua assenza nella violenza e nella prevaricazione, ma vera e propria patologia della modernità affermatasi in 150 anni di storia.
Se per Lupo è da ritenersi esaurita la fase del potere dei corleonesi basata sul terrorismo, da collegare al clima degli anni Settanta dove si pensava che la violenza fosse uno strumento di lotta politica, e sulla centralizzazione delle decisioni, è ipotizzabile invece un ritorno ad una mafia caratterizzata da un sistema orizzontale dove convivano gruppi diversi che intendono esercitare il proprio potere criminale sul territorio senza il clamore di azioni che possano riempire le pagine dei giornali e quindi rendere più forte l’azione di contrasto da parte dello Stato. Una mafia “mimetica” ma non per questo meno capace di controllare il territorio ed influenzarne le dinamiche economiche e sociali.
Fare storia di Cosa Nostra, del resto, non è sempre stato facile, anche se giustamente nell’intervista si sottolineano gli apporti fondamentali di giuristi e scienziati sociali del calibro di Franchetti o Santi Romano, a cui Lupo collega con un riferimento significativo il nostro Pigliaru. Veramente stimolante, da questo punto di vista, il capitolo in cui viene tratteggiato in maniera rapida ma assolutamente efficace il cammino degli studi storici sulla mafia, comprese le pagine critiche sulle interpretazioni rivelatesi inconsistenti alla prova dei fatti, come quelle di Arlacchi o certe spiegazioni che la inquadravano come mero strumento in mano dei latifondisti, visioni che non chiariscono come mai, dissolto questo regime proprietario, il fenomeno mafioso abbia raggiunto una potenza e un’autonomia ancora maggiore. E poi ci sono le parti dedicate agli ultimi trent’anni, con personaggi come Buscetta, che ebbe certamente un ruolo importante con le sue deposizioni al pool di Falcone, ma che mentì tanto sul suo ruolo che su quello relativo al peso del traffico degli stupefacenti imputato ai soli corleonesi. Sino ad arrivare alla polemica di Sciascia contro i professionisti dell’antimafia e ai dubbi sulla stagione delle stragi del 1992-93, con considerazioni assai puntuali sul cosiddetto “papello” che per Lupo dimostrerebbe come la mafia di Riina avesse molta capacità di far male ma non sapesse più a chi parlare a livello istituzionale come invece aveva fatto in passato.
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