Il leadersimo uccide il Paese e le virtù degli italiani

5 Dicembre 2010
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Eleonora Martini


L’uomo solo al comando non risolve i problemi, crea abulia, fa venir meno l’impegno sociale. Vale per il Cavaliere come per i governatori e i sindaci-sceriffo. Tornare a desiderare è la «virtù civile necessaria» per riattivare una società «troppo appagata e appiattita». Non lo dice un antiberlusconiano o un antisoriano qualsiasi. Lo afferma De Rita nel rapporto Censis, che intravede una via d’uscita: sta nei sogni apolidi degli imprenditori e dei giovani che lavorano e studiano all’estero, o vivono con un occhio al mondo. E sta pure nella «propensione a fare comunità, nei borghi, nei paesi». Nei luoghi collettivi (aggiungiamo noi), piccoli o grandi che siano, a misura d’uomo. Ecco la sintesi del Rapporto fatta da Eleonora Martini su Il manifesto di ieri.

Da società «liquida» tendente piuttosto alla «mucillagine» quale eravamo, da insieme di individualità senza collante, ci ritroviamo oggi una «società pericolosamente segnata dal vuoto», dove cresce l’indistinto e si appiattiscono le soggettività, una società «senza più legge né desiderio». Per anni abbiamo delegato ai politici più decisionisti, per anni abbiamo abbracciato la fede del leaderismo e della personalizzazione estrema del potere credendo che carisma coincidesse con efficienza; per anni ci siamo fatti sedurre e «indebolire» «dal primato dell’offerta di oggetti in realtà mai desiderati». Poi, delusi e disillusi, senza più arte né parte, vuoti, poco fiduciosi nel futuro e in pieno «disinvestimento individuale dal lavoro», fiaccati da un «egoismo autoreferenziale e narcisistico», siamo diventati fragili, insicuri, spaesati, apatici, cinici, in preda a «pulsioni sregolate». Appiattiti i riferimenti alti e nobili, il nostro è un popolo «passivamente adattivo», «prigioniero delle influenze mediatiche», condannato al presente «senza profondità di memoria e futuro».
Il sociologo Giuseppe De Rita usa, forse per la prima volta così nettamente, il linguaggio della psicoanalisi per descrivere la situazione sociale del Belpaese nel 44° Rapporto Censis presentato ieri. E scarica Berlusconi: «L’icona del soggettivismo è al capolinea».
Siamo ormai oltre l’era dei bamboccioni: sono 2.242.000 i giovani tra i 15 e i 34 anni che non studiano, non lavorano e nemmeno più cercano un impiego. Il motivo? Più della metà degli italiani (e soprattutto gli stessi giovani) credono che sia perché non si «vogliono accettare occupazioni faticose o di scarso prestigio». Eppure la fotografia del Censis parla di un Paese che vede ridursi nettamente non solo il lavoro dipendente ma anche quello autonomo e imprenditoriale, un campo quest’ultimo che è ad alto rischio di «despecializzazione». Lo hanno detto e ripetuto in questi giorni gli universitari: senza investimenti nella ricerca anche il made in Italy muore. E infatti il Censis avverte: l’export italiano è diminuito e non risalirà «senza maggiori inziezioni di innovazione nei prodotti». Si lavora poco e si spende poco. «Mattone, liquidità, polizze: sono questi i pilastri ai quali le famiglie si sono ancorate per resistere alla crisi». Malgrado il 40% dei nuclei familiari dichiara di non avere risparmi e il 7,8% di non riuscire a rispettare le scadenze di mutui e pagamenti rateali, e malgrado la propensione al rischio degli italiani sia mediamente bassa, negli ultimi mesi però volenti o nolenti le famiglie che possono abbandonano la prudenza e tentano di mettere a frutto al massimo i loro risparmi. Visto che tutti subiscono la «moltiplicazione delle spese indesiderate» (contributi aggiuntivi per scuole, parcheggi, «multe che sostengono le esangui casse dei comuni», parcelle per la dichiarazione dei redditi, revisioni auto e caldaie, ecc) che equivalgono ad una vera e propria «tassazione occulta» pari a 2.289 euro all’anno per una famiglia di tre persone. Senza contare le spese extra per mense, lezioni private o per collaborare «forzatamente» alla piccola manutenzione degli edifici scolastici.
L’unica economia che ha ripreso a crescere con vigore è quella irregolare della sottofatturazione e dell’evasione fiscale (+5,2%). D’altra parte, spiega il Censis, «si vive senza norma, quasi senza individuabili confini della normalità, per cui tutto nella mente dei singoli è aleatorio vagabondaggio, non capace di riferirsi ad un solido basamento». «La desublimazione di archetipi, ideali, figure di riferimento rende labili i riferimenti alla legge». E che non esistano «attualmente in Italia sedi di auctoritas che potrebbero ridare forza alla legge», lo si comprende da un dato piccolo piccolo: negli ultimi tre anni il numero di Comuni in cui sono presenti sodalizi con la criminalità organizzata è salito da 610 a 672: vi vive il 22,3% della popolazione italiana. Eppure all’insicurezza individuale e collettiva, «il vero virus che opera nella realtà sociale di questi anni», si chiede di rispondere con più leggi, più ordine, più controllo. Oppure, per altri versi si pensa «che bisogna partire dal basso accrescendo le capacità, la preparazione, la coscienza dei singoli attraverso politiche che valorizzino il merito».
È il residuo di una cultura che viene da lontano e che, secondo De Rita, si sta avvicinando alla sua implosione finale. «Dopo il lungo ciclo iniziato con il craxismo negli anni ‘80, con la voglia di maggiore decisionismo e governabilità, oggi quasi il 71% degli italiani ritiene che la scelta di dare più poteri al governo e/o al suo capo non sia adeguata per risolvere i problemi del Paese». Troppe le promesse mancate e i provvedimenti che fanno tanto rumere nei media ma che finiscono nel nulla creando una «progressiva assuefazione allo sgonfiamento». Così, il «ciclo del soggettivismo» di cui Silvio Berlusconi è l’«icona» («con i soldi che Craxi non aveva, il Cavaliere ha realizzato il suo progetto di verticalizzazione e mediatizzazione del potere») ha «esaurito la sua vitalità e la sua potenza».
Il problema principale però è l’inconscio collettivo degli italiani: «Manca la materia prima su cui lavorare, il desiderio». Tornare a desiderare è la «virtù civile necessaria» per riattivare una società «troppo appagata e appiattita». Eppure qualche barlume di speranza il Censis lo vede: sta nei sogni apolidi degli imprenditori e dei giovani che lavorano e studiano all’estero, o vivono con un occhio al mondo. E sta pure nella «propensione a fare comunità, nei borghi, nei paesi». Nei luoghi collettivi (aggiungiamo noi), piccoli o grandi che siano, a misura d’uomo.

1 commento

  • 1 Michele Podda
    5 Dicembre 2010 - 09:35

    A mene, custu De Rita, mi piaghet!

    Su chi mi dispiaghet est chi, a nois sardos, depet benner unu continentale che a issu a nos narrer cumente tocat a mandare a innantis una bidda, minore o manna chi siat. E chi mere de sa bidda e de sa zente, non bi nde depet aer.

    A l’amus a ischire, zente che a nois, chi amus istau a chentos e a mill’annos in sas biddas nostras, chene perunu cumandu de perunu guvernu? Bisonzu nd’aiamus de guvernos e de rajos? Prus pagu si nde bidiat de guvernu, menzus fiat po totus, in bonu o in malu chi esseret. A ora de apretos malos, fogu o abba o mancamenta o dimònios chi b’esseret, sa bidda intrea si pesaiat a bolu. E si bi fit de azudare a calicunu, o de fagher unu caminu nou, o de afestare su fogu ‘e Sant’Antoni o su Carrasegare, fit su matessi.

    Oje est un’àtera cosa, est abberu, e l’ischimus chi non si nde podet fagher a mancu de unu, o de tantos, chi oghen de conca pro contu ‘e sa bidda, chi chistionen e fatzan parada a lùmene de totus; ma chi custos si fatzan puru meres no, cussu non si permitiat e non si depet permiter mancu oje. Sa bolontade est de totus, puru si sa oghe, o sa frima, est de unu o de pagos.

    Gasitotu est in sa Regione, in totu sa Sardinna. Millione e mesu de pessones, belle belle nos connoschimus a pare totu cantos, e nos podimus ponner in su pesu unu cun s’àteru, a bier su chi balimus. E gai su sèperu, de chie ponner e chie no a cumandare A CONTU ‘E TOTUS, si podet fagher prus zustu, in craru, ischinde su chi si faghet. De s’Italia, mischina, non poto narrer, ca jai l’ischimus in cales abbas est colande, belle peus de nois.

    Pro cussu est chi “pedde ‘e gatu pedde cua, cadiunu in domo sua”. Nois in Sardinna podimus puru fagher a modu de nos arranzare, a fortza ‘e pelea; aterube fatzan sa matessi cosa, e istamus amicos prus de prima, dàndenos fintzas una ghetada ‘e manu, si cumbinat.
    Tando, a parrer meu, comintzamus dae sas biddas pro che parare in totu sa Sardinna; pro su restu, “su tempus at a esser mastru”.

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