Disciplina e onore

19 Novembre 2010
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Aldo Lobina

Ma di chi e di che cosa abbiamo bisogno? Me lo chiedo spesso per rispondere in modo positivo ad una inclinazione verso cui io stesso sono stato indulgente e che mi ha reso spesso più capace di vedere ciò che non va bene piuttosto che prospettare vie d’uscita efficaci. Questa seconda finalità ti obbliga a tener conto delle criticità e a superarle, dopo aver cercato di porvi rimedio. Ti obbliga anche ad una coerenza di metodo, che, se da una parte rende prevedibili certi passaggi, dall’altra promette trasparenza, diventando una garanzia di risultato.
Proviamo a riferire questo discorso alla classe dirigente. Di quale classe dirigente abbiamo bisogno? Basta il sogno di un solo uomo a incarnare le speranze di molte persone o servono piuttosto i sogni di molti per facilitare i percorsi più adatti per ciascuno? Per spiegarmi semplifico attribuendo al “berlusconismo” la prima modalità, che fa propria la propensione ad intrupparsi dietro un capo, per lo più ricco e narciso, si chiami Silvio o Renato. Ammesso e non concesso che il leaderismo davvero serva al governo di una comunità esso si nutre della collaborazione di pochi intimi, generando un numero quasi infinito di yes men, ben pasciuti, tutt’al più classe “digerente” che non fanno evidentemente classe dirigente. Ma cricca.
E’ l’idea di un sistema che è soltanto in apparenza democratico . Non basta infatti farlo scaturire dal voto degli aventi diritto per dargli una patente di democraticità, se le regole elettorali sono “porcelline”. La democrazia è frutto della condivisione e della mediazione dei bisogni di molti, che sono interdipendenti e si nutre di regole e di valori che considerano i partiti mezzi per conseguire il bene comune, non il privilegio di strette cerchie. Col rischio di autoreferenzialità perpetua.
Nella nostra storia recente abbiamo avuto alla fine della seconda guerra mondiale una classe dirigente, degna di questo nome. Essa è stata capace di interpretare i bisogni e i sentimenti delle classi contadine, che le si erano affidate, guidando uno sviluppo economico e sociale, che ha fatto crescere l’Italia fino agli anni ‘70.
Il richiamo da parte del presidente della Camera all’articolo 54 della Costituzione è sacrosanto: le funzioni pubbliche devono essere adempiute con disciplina e onore se si vuole corrispondere responsabilmente ai bisogni collettivi.
Il dominio di sé, la padronanza dei propri istinti, il rispetto delle norme che garantiscono una società ordinata vanno coltivatate con umiltà e costanza prima di tutto da parte di coloro che si propongono a disciplinare la vita degli altri e l’onore non è altro che la consapevolezza di questa funzione, cui corrisponde anche un riconoscimento sociale di sacrificio che viene definito onorevole. In certi casi invece i deputati si continuano a chiamare onorevoli senza esserlo.
E così se avessimo un numero consistente di onorevoli deputati avremmo anche un Parlamento migliore e evidentemente saremmo migliori noi stessi. Almeno nella capacità di scegliere bene i nostri rappresentanti.
Certo, disciplina e onore sono parole “dal sapore antico “; esse richiamano un modo di fare politica che vorremmo come presupposto di tutte le scelte che il governo di una nazione pretende, non sempre facili.
Non dobbiamo augurarci un’altra guerra per avere una classe dirigente illuminata, ma è certo che la congiuntura economica, così difficile in Italia, il grande numero di persone che non ha più un lavoro e quello dei giovani in attesa di prima occupazione potrebbero essere la culla di un nuovo inizio.
Ma occorre innanzitutto aver chiaro cosa si intende per classe dirigente. Essa evidentemente non corrisponde solo al ceto politico, ma anche a quell’insieme di gruppi che sono responsabili dell’economia, della cultura, della magistratura, dei mezzi di comunicazione di massa. Sono entità queste che diventano classe dirigente nella misura in cui si fanno responsabili del bene pubblico, rinunciando a interessi corporativi. Sono entità queste ultime da cui deve derivare un ceto politico,cui spetta il ruolo di coordinamento e di indirizzo non slegati dai bisogni del momento, ma con una prospettiva orientata al medio e al lungo termine.
Se a scegliere il primario di un ospedale, il direttore generale di un qualcosa, il presidente di un’altra è un ceto politico senza disciplina – e quindi senza onore - valorizzerà qualità che non hanno nulla a che fare con la professionalità e produrrà una catena di eventi contrari e fuorvianti. Sottraendo alla società pezzi importanti di un’autentica classe dirigente.
Credo che la parola chiave sia proprio “responsabilità”. Là dove questa è carente, dove c’è scarsa responsabilità pubblica non c’è neanche una vera classe dirigente: ci sono invece corporazioni, fazioni e cricche più o meno affiatate. Dove vige la regola della cooptazione, che se ne infischia del merito, basata come è sul censo o sull’appartenenza.
Modificare in meglio le regole di ingaggio della classe dirigente significherebbe promuovere i sistemi degli incentivi di chi è chiamato a selezionarla, usando finalmente efficaci sistemi di valutazione, che gratifichino i comportamenti virtuosi.
Il degrado della nostra rappresentanza politica è sotto gli occhi di tutti. Il fatto che i partiti di oggi siano diventati più leggeri e meno partecipati rispetto ai vecchi partiti ideologici li obbligherebbe ad una maggiore sensibilità e permeabilità rispetto alle istanze provenienti dalla parte sana della società. Si otterrebbe una migliore allocazione delle risorse, una riduzione degli sprechi e una più corretta composizione degli interessi contrapposti.
Non pretendiamo che i partiti cambino da soli; cambiamo anche noi il nostro rapporto coi partiti!

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