Andrea Raggio
Il NO irlandese al Trattato di Lisbona chiede più Europa o meno Europa? Probabilmente entrambe le cose. L’Irlanda ha beneficiato più di altri Paesi delle politiche europee, ma come tutti soffre le difficoltà della situazione economica internazionale. E si sa, quando le cose vanno bene, il merito è dei governi, quando vanno male, la colpa è dell’Europa. D’altro canto un Paese che ha tratto grande vantaggio dall’essere Europa è anche preoccupato più di altri dell’inadeguatezza di un Trattato scritto al ribasso. E’ comunque un fatto che anche in questo caso il governo non ha avuto la capacità di sostenere presso l’opinione pubblica l’Atto che aveva sottoscritto. Il deficit di democrazia sovranazionale, quindi, è un male dell’Unione europea perché lo è anche dei singoli Paesi. Né si può tacere, infine, l’incongruenza di un referendum limitato a quattro milioni di elettori di un solo Paese su un Trattato che interessa cinquecento milioni di cittadini di 27 Paesi. La democrazia sovranazionale vive se tutti i cittadini dell’Unione europea sono chiamati a decidere, anche con lo strumento del referendum, sugli Atti fondamentali della costruzione comunitaria. E’ questa l’ulteriore prova di un assetto istituzionale inadeguato e contradditorio.
Colpa della burocrazia di Bruxelles, come sostiene minaccioso Berlusconi? No, colpa dei governi, quello italiano compreso. Richiamo i passaggi principali del processo comunitario negli ultimi decenni. Il 14 febbraio 1984 il Parlamento europeo approva il primo progetto di Costituzione elaborato sotto l’impulso di Altiero Spinelli. La Comunità europea era passata dai sei stati fondatori a dieci e si profilava l’ulteriore allargamento a Spagna e Portogallo, era cresciuta la competitività internazionale, soprattutto si avvertivano i primi segni dei grandi mutamenti mondiali in campo politico, economico e tecnologico. Era indispensabile dare nuove più solide fondamenta alla costruzione comunitaria. Negli anni seguenti la Conferenza intergovernativa e il Consiglio europeo, formato com’è noto dai governi, discutono il progetto di Costituzione e alla fine del 1985 “partoriscono solo un miserabile topolino”, commenta Spinelli. Fu, tuttavia, una sconfitta “gloriosa” (Nilde Jotti), non solo perché il risultato immediato, l”Atto unico europeo”, ancorché distante dal disegno costituzionale, non era del tutto estraneo a esso e “senza il progetto di Trattato non ci sarebbe stato…” (Jacques Delors), ma perché quella dura battaglia del Parlamento ha dato forza e credibilità alla visione comunitaria della costruzione europea in alternativa a quella tradizionale intergovernativa. Il confronto e lo scontro tra queste due visioni caratterizzeranno gli eventi degli anni successivi.
Nel 1989 la caduta del muro di Berlino muta lo scenario europeo e mondiale. Si passa dalla “Piccola Europa”, all’interno di un mondo bipolare con confini definiti e protetti a est dalla Nato e con una Comunità economica limitata a pochi Stati, alla “Grande Europa” in un mondo globalizzato. Una differenza di enorme portata. Sorge una grande questione, quella di un nuovo assetto delle relazioni internazionali. Per l’Europa è aperta la strada verso un ruolo di potenza mondiale. Da un ordine mondiale bipolare, basato sulle due superpotenze USA e URSS, si passa al dominio di una sola superpotenza, quella americana. Dilagano tensioni e conflitti, il terrorismo si fa sempre più pericoloso, sono teorizzate lacerazioni del diritto internazionale (la guerra preventiva, l’esportazione armata della democrazia). L’attacco alle Torri gemelle del settembre 2001 aggrava la situazione. La pressione statunitense mira a subordinare pesantemente l’Unione europea. Durante la guerra contro l’Iraq, Bush si appella alla “Nuova Europa”, favorevole alla guerra, contrapposta alla “Vecchia”. Una parte importante di governi, compreso quello Berlusconi d’allora, lo segue.
Ma i governi guardano solo ai possibili nuovi mercati e, quindi, solo all’allargamento in termini di mera dimensione geografica, demografica ed economica, non in quelli della nuova dimensione politica. La stessa istituzione dell’euro non è accompagnata dall’adozione di una politica economica comune. Con l’allargamento l’Unione europea passa a 25 membri (poi a 27), ma l’assetto istituzionale rimane sostanzialmente quello dell’Europa a 6. La costruzione comunitaria rischia l’ingovernabilità. Sotto la pressione del Parlamento, i governi decidono nel dicembre 2001 l’istituzione di un organismo straordinario, la “Convenzione europea”, col compito di predisporre un progetto di Costituzione. Della Convenzione fanno parte non solo i governi ma anche, per la prima volta, i rappresentanti del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali. Nel luglio 2003 il presidente Giscard D’Estaing presenta il “Progetto di Trattato che istituisce la Costituzione europea”, sottoscritto nell’ottobre 2004, con lievi modifiche, da tutti i governi. La trattativa è stata lunga e complessa, caratterizzata da un confronto serrato tra la visione dell’Europa politica propugnata dal Parlamento e dalla Commissione europea (presieduta da Prodi) e quella intergovernativa.E’ un importante tappa verso l’Unione politica. La Conferenza intergovernativa che doveva approvarla, presieduta dall’Italia (Berlusconi), non riesce a trovare un accordo e il 13 dicembre viene dichiaro il fallimento del negoziato. L’impresa, invece, riesce alla presidenza successiva, quella irlandese. Il resto è storia recente. Il No francese e quello olandese affossano la Costituzione, segue una fase di riflessione dei governi durata ben due anni e conclusasi con l’approvazione del Trattato di Lisbona. Un grave arretramento.
Quel che succederà è difficile prevedere. Il Consiglio europeo del 19-20 giugno ha preso tempo, la patata bollente passa alla presidenza francese. L’orientamento prevalente sembra essere quello di andare avanti con chi ci sta, dando vita all’Europa a geometria variabile. Un modo per tamponare la situazione, ma la crisi dell’Unione rimane irrisolta. Che cosa sarà l’Europa in futuro è un mistero politico. Quel che si può dire è che rinunciare all’Europa e accontentarsi di un suo ruolo marginale sarebbe un vero e proprio suicidio. Il mondo cambia velocemente, l’asse dello sviluppo mondiale passa per nuove potenze e non è detto che gli USA, anche eventualmente con Obama, cambino radicalmente indirizzo rispetto al loro stile di vita e al loro modo di intendere la sicurezza nazionale. La fame di grande parte dell’umanità e le ferite ambientali minano la sicurezza e la salute del pianeta. L’Europa non può e non deve tirasi indietro rispetto al compito storico di concorrere ad avviare un nuovo ordine mondiale e una nuova idea di civiltà.
Una questione di tale portata non può essere lasciata solo nelle mani dei governi. Determinante è la partecipazione dei cittadini. L’Europa, non dimentichiamolo, non è soltanto idealità, è anche quotidianità, la vita di tutti i giorni, il futuro. E’ lotta politica, partecipazione, democrazia.
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