Il Manifesto: tre mesi per vivere

8 Novembre 2010
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Gabriele Polo

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Su di essa torneremo. Ecco ora l’appello di Gabriele Polo della Redazione de Il Manifesto.

Da alcuni mesi il governo ha azzerato il finanziamento pubblico dell’informazione cooperativa e politica, cancellando la legge sul diritto soggettivo, sostituendolo con un «fondo» per l’editoria, ancor oggi del tutto indefinito. La conseguenza, per quel che ci riguarda, è il dissolversi del 25% delle entrate.
Da alcuni anni le nostre vendite sono in costante flessione e - per dare qualche cifra - nei primi nove mesi del 2010 le copie diffuse in edicola sono scese quasi del 20% rispetto allo stesso periodo del 2009, mentre gli abbonati sono il 10% in meno dell’anno precedente.
Tra finanziamenti dissolti e copie perse stiamo soffocando: se non riusciremo a invertirne il corso «naturale», questi due fatti - soprattuto il primo, per rilevanza quantitativa - porteranno in pochi mesi alla chiusura del manifesto.
Sul primo punto c’è poco da aggiungere a ciò che è stato detto mille volte e che i nostri lettori conoscono quasi a memoria. Cancellando un diritto di legge e sostituendolo con una concessione di bilancio, il governo in carica non fa altro che perseguire per via amministrativa uno dei suoi obiettivi politici di fondo, la distruzione del pluralismo e l’omologazione dell’informazione. In «cambio» dei quasi quattro milioni di euro che la legge ci garantiva, l’esecutivo ha promesso (a noi e a tutte le altre testate cooperative e politiche) qualche briciola tra gli avanzi di cassa di fine anno: quanto e quando non è dato sapere e così non possiamo nemmeno chiedere un prestito bancario. Il tutto avviene nel quasi totale silenzio o, persino, con la complicità di chi - contro l’odiato intervento pubblico in economia - elogia le capacità regolatrici del mercato e finge di credere che sia libero. Liberali autentici - curiosamente tra loro ci sono i più focosi avversari del premier - e rigorosi assertori della legalità come soluzione per tutti i mali. Dicono sciocchezze, ma al momento parecchio diffuse. Contro cui continueremo a batterci finché avremo voce, per i nostri diritti e i relativi finanziamenti pubblici.
Sul secondo punto della nostra crisi il discorso sarebbe parecchio più lungo, editoriale e politico: dalle rivoluzioni in corso nel mondo dell’informazione alle involuzioni su cui si è avvitata la sinistra europea, quella italiana in particolare. Noi stiamo dentro l’uno e l’altro corno del problema, al tempo stesso vittime e protagonisti. Non possiamo venirne fuori da soli, ma non possiamo nemmeno considerarci senza colpa. Se il giornale «perde copie» e appare meno utile di un tempo è perché il nostro «media» funziona male e il nostro mestiere ha perso in vivacità e curiosità; perché siamo diventati politicamente pigri, rischiando il conformismo. Siamo parte (in causa) di una crisi generale, la cui risoluzione è tutta da costruire. Cosa che non avverrà dall’oggi al domani, che non dipende solo da noi, ma che non possiamo attendere ci cada dal cielo. Di tutto questo dovremo continuare a parlare, «cercando ancora», come diceva Claudio Napoleoni.
Se saremo ancora vivi. Perché questo non è affatto certo, i numeri ci porterebbero da tutt’altra parte. La «congiuntura» sopra descritta parla di collasso imminente. Per affrontarlo non basta nemmeno più lo stillicidio degli stipendi in perenne ritardo: non basta cioè continuare a lavorare in una condizione che da qualunque altra parte avrebbe portato al blocco totale delle attività (l’ultimo stipendio pagato quest’anno risale ad aprile e da lì si è andati avanti a piccoli acconti). Né è risolutivo lo stato di crisi che lo scorso 16 settembre abbiamo chiesto al ministero del lavoro, per cui - da quella data - 25 di noi sono in cassa integrazione (a rotazione) per due anni e quattordici soci della cooperativa andranno in prepensionamento nel corso dei prossimi mesi (portando il numero dei dipendenti sotto quota settanta, mentre solo cinque anni fa eravamo 120). Ma, si diceva, non basta nemmeno questo «sacrificio umano», perché la fine del finanziamento pubblico mette in discussione la stessa continuità aziendale. E’ in questo panorama che dovremo ripensare il nostro lavoro (il quotidiano che facciamo, il sito, i supplementi e gli speciali), il suo senso, la sua utilità, la nostra relazione con i lettori e con il «nostro mondo»: cioè il come esserci e fare politica nella particolare forma di un giornale. Coscienti che l’esito non è scontato. E, contemporaneamente, tenerci in vita facendo quadrare almeno un po’ i conti.
Questo è lo stato dell’arte. La cosa più urgente, dopo il taglio dei finanziamenti pubblici, è sostituire l’editore pubblico che si defila - lo stato - con l’unico altro editore pubblico possibile - i lettori. Per questo «riapriamo» una sottoscrizione che non dovrebbe finire mai e anticipiamo la campagna abbonamenti 2011, chiedendo a tutti di partecipare e di promuoverla. Entro i prossimi tre mesi, per evitare che con la fine del 2010 arrivi anche la fine del manifesto.

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