Francesco Cocco
Alle dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat, che in un’ intervista televisiva condotta da F. Fazio lamentava la scarsa produttività degli stabilimenti italiani della sua azienda, si sono aggiunte quelle di Scaroni, amministratore dell’Eni. Entrambi lamentano l’assenteismo in taluni parti del Paese, segnatamente nel Mezzogiorno, in occasione di eventi sportivi di particolare importanza. Fenomeni ingiustificabili ma da inquadrare in un ampio contesto.
A supporto delle dichiarazioni dei massimi dirigenti delle due più importanti strutture industriali del Paese, si è aggiunto Roberto Nicastro, direttore generale della maggior banca italiana, Unicredit, con importanti ramificazioni nei paesi dell’Est Europa. Nicastro ha dichiarato: “Siamo soddisfattissimi dell’Est Europa e dell’Austria. Li facciamo quattrini, dove non li facciamo è l’Italia”.
Sono tutte esternazioni che assumono il carattere di una vera e propria provocazione dal momento che tendono ad individuare strumentalmente la causa della bassa produttività nei lavoratori anziché nei variegati elementi che contribuiscono a formare la complessiva produttività di un’azienda.
Agisce l’innovazione tecnologica, la quota di capitale strumentale presente nel processo produttivo, i livelli d’istruzione generale e specifica degli addetti. Un ruolo non secondario è poi assunto dai fattori psicologici.
Se nella scala internazionale della produttività le aziende italiane scendono sempre più in basso, la causa della regressione va innanzitutto ricercata nel degrado del sistema Paese. Come si può pensare di risalire il baratro nel quale stiamo precipitando se diminuiscono gli investimenti per la scuola sia in ordine alla formazione culturale dei giovani sia alla loro preparazione professionale? La Danimarca, paese povero di materie prime, a metà Ottocento concentrò tutte le sue risorse nella scuola. Questo ha consentito a quel paese scandinavo di raggiungere gli alti livelli attuali. Un esempio non unico che indica una direzione di marcia ancora valida.
E come non tener presente i fattori psicologici? Sono questi che in economia spesso anticipano o rallentano i fenomeni. Come si può pensare che il clima in fabbrica possa non essere influenzato dal generale clima di lassismo presente nel Paese? Se Sodoma e Gomorra sono ormai i modelli ai quali sembra ispirarsi certi dirigenza politica ed istituzionale, come pensare a cellule aziendali asettiche ed estranee al complessivo corpo del Paese?
La realtà è che non solo la politica e l’ economia sono strettamente interdipendenti tra loro ma poi entrambe condizionate dal livello morale e dal complessivo spirito pubblico.
In tale contesto di degrado il mondo del lavoro, contrariamente al parere dei vari Marchionne, Scaroni e Nicastro, sembra essere la componente che più responsabilmente tiene in piedi il tessuto connettivo dell’Italia. E questo senza le forme di sostanziale rapina sociale che caratterizzano i top-manager delle grandi strutture aziendali. E’ stato ricordato che il grande Vittorio Valletta riceveva dalla Fiat una retribuzione pari a venti volte il salario medio di un dipendente, la remunerazione di Marchionne è invece pari a ben 500 volte. Che dire poi della ricca buonuscita dell’amministratore delegato di Unicredit che ha ricevuto un bonus di 40 milioni di euro, pari a 80 miliardi delle vecchie lire?
I lavoratori sapranno salvare questa nostra Italia portata a tanto degrado dalle sue rappresentanze governative e dalle sue dirigenze industriali e finanziarie. Lo hanno già dimostrato in passato proprio gli operai della Fiat quando, durante il secondo conflitto mondiale, salvarono gli impianti dal tentativo nazi-fascista di trasportali in Germania. Di tanto, a rischio della vita, sono stati capaci i lavoratori italiani. Dal loro senso di responsabilità ci viene ancora una speranza di salvezza, non certo dalla famelicità dei top-manager.
Top manager: rapina sociale e provocazioni.
Alle dichiarazioni dell’amministratore delegato della Fiat, che in un’ intervista televisiva condotta da F. Fazio lamentava la scarsa produttività degli stabilimenti italiani della sua azienda, si sono aggiunte quelle di Scaroni, amministratore dell’Eni. Entrambi lamentano l’assenteismo in taluni parti del Paese, segnatamente nel Mezzogiorno, in occasione di eventi sportivi di particolare importanza. Fenomeni ingiustificabili ma da inquadrare in un ampio contesto.
A supporto delle dichiarazioni dei massimi dirigenti delle due più importanti strutture industriali del Paese, si è aggiunto Roberto Nicastro, direttore generale della maggior banca italiana, Unicredit, con importanti ramificazioni nei paesi dell’Est Europa. Nicastro ha dichiarato: “Siamo soddisfattissimi dell’Est Europa e dell’Austria. Li facciamo quattrini, dove non li facciamo è l’Italia”.
Sono tutte esternazioni che assumono il carattere di una vera e propria provocazione dal momento che tendono ad individuare strumentalmente la causa della bassa produttività nei lavoratori anziché nei variegati elementi che contribuiscono a formare la complessiva produttività di un’azienda.
Agisce l’innovazione tecnologica, la quota di capitale strumentale presente nel processo produttivo, i livelli d’istruzione generale e specifica degli addetti. Un ruolo non secondario è poi assunto dai fattori psicologici.
Se nella scala internazionale della produttività le aziende italiane scendono sempre più in basso, la causa della regressione va innanzitutto ricercata nel degrado del sistema Paese. Come si può pensare di risalire il baratro nel quale stiamo precipitando se diminuiscono gli investimenti per la scuola sia in ordine alla formazione culturale dei giovani sia alla loro preparazione professionale? La Danimarca, paese povero di materie prime, a metà Ottocento concentrò tutte le sue risorse nella scuola. Questo ha consentito a quel paese scandinavo di raggiungere gli alti livelli attuali. Un esempio non unico che indica una direzione di marcia ancora valida.
E come non tener presente i fattori psicologici? Sono questi che in economia spesso anticipano o rallentano i fenomeni. Come si può pensare che il clima in fabbrica possa non essere influenzato dal generale clima di lassismo presente nel Paese? Se Sodoma e Gomorra sono ormai i modelli ai quali sembra ispirarsi certi dirigenza politica ed istituzionale, come pensare a cellule aziendali asettiche ed estranee al complessivo corpo del Paese?
La realtà è che non solo la politica e l’ economia sono strettamente interdipendenti tra loro ma poi entrambe condizionate dal livello morale e dal complessivo spirito pubblico.
In tale contesto di degrado il mondo del lavoro, contrariamente al parere dei vari Marchionne, Scaroni e Nicastro, sembra essere la componente che più responsabilmente tiene in piedi il tessuto connettivo dell’Italia. E questo senza le forme di sostanziale rapina sociale che caratterizzano i top-manager delle grandi strutture aziendali. E’ stato ricordato che il grande Vittorio Valletta riceveva dalla Fiat una retribuzione pari a venti volte il salario medio di un dipendente, la remunerazione di Marchionne è invece pari a ben 500 volte. Che dire poi della ricca buonuscita dell’amministratore delegato di Unicredit che ha ricevuto un bonus di 40 milioni di euro, pari a 80 miliardi delle vecchie lire?
I lavoratori sapranno salvare questa nostra Italia portata a tanto degrado dalle sue rappresentanze governative e dalle sue dirigenze industriali e finanziarie. Lo hanno già dimostrato in passato proprio gli operai della Fiat quando, durante il secondo conflitto mondiale, salvarono gli impianti dal tentativo nazi-fascista di trasportali in Germania. Di tanto, a rischio della vita, sono stati capaci i lavoratori italiani. Dal loro senso di responsabilità ci viene ancora una speranza di salvezza, non certo dalla famelicità dei top-manager.
1 commento
1 Antonello Murgia
3 Novembre 2010 - 17:28
A quanto scritto da Francesco nel suo bell’articolo, aggiungerei che le facili ricette proposte da Marchionne & C. vengono propinate oggi perché il terreno è stato preparato da chi, con poca familiarità con storia patria ed economia, ha pensato di mettere assieme l’industriale e l’operaio, affidando di fatto la tutela della vittima al suo carnefice
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