Capitalismo e solidarietà

4 Novembre 2010
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Gianfranco Sabattini

L’aumento della povertà all’interno delle economie industrializzate trae origine dal fatto che la sostenibilità del welfare state tradizionale versa ormai in una crisi strutturale. Le cause di queste crisi possono essere rinvenute, principalmente, nella crescita della disoccupazione strutturale irreversibile, nella caduta del tasso di natalità, nella tendenza all’aumento della speranza di vita e nella tendenza alla contrazione dell’età del passaggio dei componenti della forza lavoro dalla collettività degli attivi alla collettività dei non più attivi (pensionati).
Le difficoltà strutturali non possono più essere risolte con riforme continue del modello organizzativo tradizionale della sicurezza sociale. Le sue “ricalibrature” sono giunte a un limite invalicabile, per via dei motivi strutturali indicati. Non è quindi più possibile pensare di poter rilanciare la crescita e lo sviluppo del sistema sociale nel lungo periodo attraverso, ad esempio, una riduzione complessiva del welfare state associata ad un aumento della flessibilità del mercato del lavoro. Specie se si pensa che, così operando, le attività produttive possano affrontare meglio la concorrenza, senza nel contempo evitare un aumento della disoccupazione della forza lavoro, che, a causa della ristrutturazione delle attività produttive, andrebbe ad ingrossare la preesistente disoccupazione.
Tuttavia, gli alti tassi di disoccupazione all’interno delle economie industriali sono giudicati, da molti economisti di tutti gli orientamenti politici e dall’intera società politica, non più sostenibili. E poiché la loro causa, soprattutto in Italia, tende ad essere individuata soprattutto negli alti livelli delle prestazioni sociali garantite a scapito, però, dei ritmi di crescita e di sviluppo del sistema sociale, la riduzione del welfare state costituisce l’obiettivo principale di quanti hanno a cuore il problema del contenimento della disoccupazione e, in generale, della povertà relativa. Al riguardo, sta consolidandosi in questi tempi una terapia alternativa alla riduzione delle prestazioni sociali. Al centro di questa terapia, come viene sostenuto entusiasticamente da molti osservatori, ci sarebbe una nuova figura di imprenditore: l’”imprenditore sociale”. Questo sarebbe caratterizzato dal riuscire a coniugare l’efficienza del management d’impresa con l’impegno alla lotta contro le disuguaglianze, l’aiuto ai più deboli e il miglioramento dei servizi sociali. Coloro che supportano il ruolo dell’imprenditore sociale sostengono che l’approccio al disagio sociale sta entrando in una nuova fase. All’inizio del secolo scorso, aiutare chi era in stato di bisogno era un compito affidato principalmente alla carità dei privati. Successivamente, tra gli anni Trenta e la fine degli anni Settanta, in tutte le economie industrializzate, la costruzione del welfare ha spostato la responsabilità delle prestazioni “caritatevoli” sullo Stato. Dall’inizio degli anni Ottanta, si assiste all’avvio di una terza fase, caratterizzata dalla restituzione ai privati della funzione di garantire le prestazione sociali dimesse.
I fornitori privati di servizi sociali, altri non sarebbero che delle fondazioni dotate delle risorse finanziarie conferite da grandi imprese e da titolari di grandi patrimoni. Questa novità, che viene dagli Stati Uniti, non concorre certo ad eliminare radicalmente dalla struttura delle società civili lo “stigma della povertà” e, dunque la dipendenza di chi si trova in stato di bisogno dal “buon cuore” di chi è disposto ad aprire la propria borsa in favore dei bisognosi. Non si vogliono certo biasimare le ispirazioni nobili del volontariato e la filantropia di chi ha raggiunto la libertà dal bisogno. Tuttavia, non si può non riconoscere che l’imprenditore sociale può essere percepito, da un lato, come la “foglia di fico” con cui chi lo finanzia tende a porre rimedio ai “morsi della coscienza” che gli derivano dalla contezza di aver accumulato risorse economiche, oltre ogni limite giustificabile, esercitando il ruolo di imprenditore schumpeteriano; dall’altro, di curare la propria immagine, attraverso la fusione, nell’esercizio dell’attività di imprenditore sociale, dell’impegno sociale con i livelli più avanzati dell’efficienza propri dell’imprenditore schumpeteriano. Molti osservano che quel che conta è il risultato. Ma, se l’assistenza privata continuerà ad essere selettiva a causa dell’efficienza con cui sono erogate le prestazioni, il sistema di sicurezza sociale continuerà a conservare, in peggio, la natura di sistema ibrido, in quanto in esso permarrebbero i caratteri della “carità pubblica” e quelli dei “diritti garantiti” non più dallo Stato, ma da privati benefattori. La terza fase del welfare può avere invece realmente inizio, non con una ricalibratura del sistema di protezione ereditato dal passato, ma solo e unicamente con l’istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza corrisposto incondizionatamente a tutti. Solo con questa forma di reddito, il capitalismo oltre ad eliminare lo “stigma della povertà”, può anche contribuire ad approfondire la solidarietà sociale, diventando così capitalismo solidale.

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