Carlo Dore jr.
La nota attraverso cui il Presidente Napolitano ha espresso le proprie riserve circa la “ragionevolezza” del disegno di legge di revisione costituzionale che prevede la sospensione dei processi in atto nei confronti del Capo dello Stato e del Presidente del Consiglio costituisce la migliore conferma della fondatezza dei dubbi manifestati da alcuni eminenti studiosi del diritto costituzionale in ordine al tentativo di introdurre nella Carta Fondamentale una versione attenuata dello “scudo” già previsto dal Lodo Alfano, di cui la Consulta ha rilevato la manifesta incostituzionalità mediante la ben nota sentenza n. 262 del 2009.
Anche volendo, in questa sede, sorvolare sui molteplici profili di criticità che caratterizzano il ddl al momento sottoposto all’esame del Senato (il Presidente della Repubblica non necessità di garanzie più ampie di quelle già previste dall’art. 90 della Carta; il Presidente del Consiglio trae la propria legittimazione a governare dalla fiducia delle Camere e non da una diretta investitura popolare: risulta pertanto improprio ogni richiamo alla necessità di garantire “il sereno svolgimento delle funzioni di governo da parte di chi risulta titolare del mandato conferito dal corpo elettorale”; le molteplici incombenze collegate all’azione di indirizzo e coordinamento dell’attività dell’Esecutivo che impongono al premier di disertare le udienze non gli hanno però impedito di mantenere, per oltre quattro mesi, l’interim di un ministero centrale per le sorti dell’economia del Paese), la proposta di revisione della Costituzione al centro del dibattito politico presenta una zona d’ombra di cui forse lo stesso legislatore ha sottovalutato la portata.
Come ha autorevolmente osservato il costituzionalista Alessandro Pace, le leggi di revisione costituzionale hanno la funzione di aggiornare la Carta Fondamentale, di renderla sensibile al progresso della società ed alle trasformazioni che maturano in senoad essa. Di aggiornarla, non di sconvolgerla. Non di apportare al testo costituzionale emendamenti non conciliabili con quei principi fondamentali che sfuggono, per forza di cose, ad ogni possibilità di revisione; non di sostituire la sovranità popolare con il plebiscitarismo, la solidarietà con la devozione al princeps, l’eguaglianza con il privilegio.
Ecco, eguaglianza e privilegio. L’approvazione del lodo Alfano per via costituzionale non rappresenta semplicemente l’ultimo anello dell’interminabile catena di leggi ad personam costruita dall’attuale maggioranza di governo nel corso degli ultimi quindici anni, l’estremo tentativo di offrire al premier un salvacondotto che lo protegga dall’onta del banco degli imputati. No, è qualcosa di diverso: è la pietra angolare da cui procede la creazione di un sistema politico basato sulla delega in bianco conferita direttamente dal popolo al leader, sul potere concepito come insensibilità ad ogni forma di limite e di controllo, sul definitivo superamento del principio in forza del quale tutti i cittadini devono essere considerati eguali dinanzi alla legge, indipendentemente dalle loro condizioni personali o sociali. E’ la legittimazione della disuguaglianza come principio fondamentale dell’ordinamento giuridico, la costituzionalizzazione di una democrazia diseguale.
Di questo disegno, il Presidente della Repubblica non ha potuto non cogliere l’intrinseca irragionevolezza: l’irragionevolezza di una Costituzione degradata a mero strumento di attuazione delle contingenti esigenze della singola parte politica; l’irragionevolezza del potere inteso come somma di privilegi e non come funzione da esercitare nell’interesse della collettività. La profonda irragionevolezza che fatalmente accompagna ogni tentativo di legittimazione di una democrazia diseguale.
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