Stefano Rodotà risponde a Matteo Bartocci
Per l’interesse generale che rivestono pubblichiamo le considerazioni formulate da Stefano Rodotà il 21 scorso a Il Manifesto
Dopo quarant’anni di vita senza né partiti, né padroni, né editori il nostro giornale rischia di chiudere per i tagli di Tremonti ai contributi all’editoria. «I quotidiani come il manifesto sono le vittime più fragili di una logica distruttiva che sta travolgendo tutto il mondo della cultura e del sapere critico: è la politica dei tagli lineari»: il costituzionalista Stefano Rodotà analizza la politica berlusconiana che cancella le voci critiche e spezza gli anelli del sapere. La nostra campagna, per resistere e vincere anche questa decisiva battaglia, comincia a dare i primi frutti. Da Milano arriva un piccolo tesoro: 7.000 euro di abbonamenti. Mentre i circoli del manifesto, dalle Marche al Salento, sono mobilitati per salvare i nostro-loro giornale. Tagli all’editoria, alla scuola e all’università. Censure sempre più evidenti nel servizio pubblico. Dominio della cultura di impresa sulla cultura dello stato. Per Stefano Rodotà tutto si tiene in questo doloroso autunno berlusconiano. Una matassa che la sinistra deve affrontare e sciogliere una volta per tutte se vuole tornare ad essere credibile.
Professore, dopo 40 anni di vita senza editori se non noi stessi e i nostri lettori, «il manifesto» rischia di chiudere. Oltre a noi altri 90 giornali di ogni orientamento rischiano di portare i libri in tribunale a causa dei tagli all’editoria.
I giornali come il manifesto sono le vittime più fragili di una logica distruttiva che sta travolgendo tutto il mondo della cultura e del sapere critico: la politica dei tagli lineari. Una logica con cui la politica abdica al suo compito fondamentale che è esattamente scegliere, distinguere tra un’informazione che ha un’effettiva qualità da situazioni parassitarie che proprio chi dice di volere eliminare invece non sa o non vuole affrontare. Una politica che dice di no a tutti è facile. Ma è una fuga da qualsiasi responsabilità. Oppure è altro.
E cioè?
Prendiamo ad esempio le università e a tutto ciò che sta accadendo nel mondo della cultura in generale. Tutte le scelte politiche sono giustificate dicendo che bisogna risparmiare. Ma quell’esigenza, attuata in modo indiscriminato, è diventata un attacco globale al sapere critico da qualunque parte provenga. Un attacco che non è casuale e che deforma la democrazia. Democrazia non è votare ogni tanto. E’ qualcosa di più: è moltiplicare gli strumenti di controllo nella società, dare a tutti gli strumenti per conoscere e partecipare alla vita comune. Prendiamo questi tre no espressi dal governo: no al controllo da parte del parlamento, no al controllo da parte della magistratura, no alla critica dell’informazione e della cultura. La somma di questi tre no è la cancellazione di ogni sapere critico. E su questo ormai tutti i nodi stanno venendo al pettine.
A cominciare, o a finire, dalla Rai: il «servizio pubblico» radio-televisivo.
L’ultimo Porta a porta non ha precedenti. Per quella puntata, Masi - e Vespa che si è prestato a farla - dovrebbe essere censurato proprio come lui censura Dandini o Santoro. Un dirigente che usa una trasmissione della sua azienda come un corpo contundente contro un’altra rivela davvero tutta la sua cultura politica e come si compone oggi il panorama informativo. Accanto a tentativi di censura evidenti c’è soprattutto l’alimentazione di un’agenda diversa. Ogni giorno ci sono 4 pagine sul delitto di Avetrana e poche righe per le migliaia di operai scesi in piazza sabato. Non occultare le notizie dovrebbe essere l’Abc del giornalismo, ma oltre a quello che non viene detto va valutato anche ciò che viene detto.
Forse per questo le proteste di chi è in difficoltà sono costrette a essere sempre più clamorose, che siano pastori sardi, operai sui tetti o ricercatori che fanno lezione in piazza.
E’ ormai dimostrato che Tg1 e Tg5, su cui si forma l’opinione della maggioranza delle persone, di fatto non sono più un sistema informativo. Ci sono interi fenomeni concreti, di massa, non minoritari o di nicchia, che vengono nascosti. Penso alla Fiom ma anche al milione e mezzo di firme raccolte per l’acqua pubblica senza nemmeno un minuto di telegiornale pubblico. Ormai viene raccontato un paese completamente diverso da quello che esiste. Se chiude il manifesto, se si censura la Gabanelli non vengono spenti singoli giornali o giornalisti ma vengono censurati pezzi sempre più ampi di società finché la società stessa non è più rappresentata.
Per spiegare tutto questo non basta il conflitto di interessi di Berlusconi. Anche perché di conflitti di interessi ce ne sono tanti. Non ultimo quello di un possibile «salvatore della patria» come Montezemolo, che si appresta a far correre i treni privati sulle rotaie dello stato.
Quando il centrosinistra invoca Montezemolo, Profumo o Draghi qualcosa non funziona. La politica ha abdicato al suo ruolo e cerca di aggrapparsi a qualcosa o a qualcuno al di fuori di sé: non più la troppo mitizzata società civile degli anni ‘90 ma i poteri prevalenti, quelli dell’economia. E’ una politica che di fronte alla complessità e al conflitto alza le mani e passa il testimone ad altri. Oggi la selezione della classe dirigente la fa direttamente il mondo dell’impresa che, senza demonizzazioni, è strutturalmente portatore di conflitti di interesse. Se non altro perché la cultura di impresa non è la cultura dello stato. Però non c’è buona politica senza buona cultura. Puoi anche fare ministro un regista o un professore ma se hai impoverito tutti gli strumenti culturali ormai il canale tra politica e saperi è prosciugato. In passato invece quell’osmosi ha funzionato bene: la Costituzione, lo statuto dei lavoratori, la riforma del diritto di famiglia o dei manicomi non sarebbero stati pensabili senza una cultura nuova e un rapporto fecondo tra politica, società, informazione e saperi in tutte le loro forme, dalle case editrici alle università. Di tutto questo, oggi, e tutto insieme, rischiamo di essere privati.
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