Gonario Francesco Sedda
Dalla ricostruzione degli accidenti di Harrisburg [Democrazia Oggi, Ambiente, 22 Luglio 2010] e di Cernobyl [Democrazia Oggi, Ambiente, 1 Settembre 2010] non si può trarre la semplice conclusione che la diversa gravità di essi sia dovuta solamente alla maggiore “sicurezza intrinseca” dei reattori statunitensi (PWR) rispetto a quelli russo-sovietici (RBMK). Considerando anche il “contesto” generale in cui sono avvenuti gli accidenti (il sistema politico-istituzionale statunitense e quello sovietico) risulta che l’opposizione libertà-dittatura non è una chiave che riesce ad aprire tutte le porte del “mondo nucleare”: il contesto politico-istituzionale non è completamente e meccanicamente “sovrapponibile” al contesto della filiera nucleare. Nel mondo nucleare le “dinamiche di chiusura” sono più o meno convergenti a dispetto delle diversità istituzionali, mentre libertà e dittatura hanno comunque dinamiche divergenti.
L’accidente di Three Mile Island non è avvenuto solo per “alea” (entro il normale rischio dell’impresa nucleare) in un contesto in cui “tutto andava bene”. Al contrario: è avvenuto in un contesto in cui “molto andava male”. Semmai è stata una “fortuna” che non abbia avuto conseguenze più gravi paragonabili a quelle del successivo accidente di Cernobyl.
E così, la conclusione generale della Commissione d’inchiesta (Kemeny, John G. (October 1979). Report of The President’s Commission on the Accident at Three Mile Island: The Need for Change: The Legacy of TMI. Washington, D.C.) recita: «Sebbene il fattore più importante che ha trasformato questo incidente in un grave accidente sia stato l’azione inappropriata dell’operatore, molti fattori hanno concorso all’azione degli addetti, come le mancanze nel loro addestramento, l’assenza di chiarezza nelle loro procedure operative, l’incapacità degli Organismi di imparare le giuste lezioni dai precedenti incidenti e le manchevolezze nella progettazione della sala di controllo. Questi difetti sono attribuibili all’Ente, ai fornitori di apparecchiature e alla Commissione federale che regola il settore elettronucleare. Quindi – che l’errore dell’operatore “spieghi” questo caso particolare o no – date tutte le suddette manchevolezze, SI È CONVINTI CHE UN ACCIDENTE SIMILE A QUELLO DI THREE MILE ISLAND FOSSE ALLA FINE INEVITABILE».
Oggi al centro della propaganda nuclearista vi è l’esaltazione – come punto di forza – del concetto di “sicurezza intrinseca” o di “sicurezza passiva”: una sicurezza a prova di errore umano. Si torna quindi a discutere sulla “sicurezza nucleare” concentrandola, se non addirittura esaurendola, sui problemi di sicurezza degli impianti (che naturalmente esistono).
È chiaro che in entrambi gli accidenti (di Harrisburg e Cernobyl), in concorrenza di altri fattori e nel contesto specifico di ognuno, l’intervento umano ha giocato un suo ruolo: nel caso statunitense perché inappropriato e nel caso russo-sovietico perché al limite della follia. Ma non per questo il fattore umano cessa di far parte del problema: non può essere esorcizzato in nome di quella superstizione tecnologica che crede nella “macchina al di sopra dell’uomo”. In realtà anche la più piccola vite di un impianto nucleare presuppone l’intervento umano per produrla con una qualità tale da essere affidabile; il controllo di qualità di ogni singola sua parte richiede l’intervento umano (diretto o indiretto); la messa in opera di elementi costruttivi di qualità richiede un intervento umano a regola d’arte per dare un manufatto o un complesso affidabile.
Non si può contemporaneamente sostenere che l’intervento umano sia “inaffidabile” nella fase di gestione e controllo degli impianti e invece “affidabile” nella fase di produzione delle singole loro parti, nella messa in opera e nella connessione dei loro elementi costruttivi.
Questo “modo di vedere” (o nel migliore dei casi, questa forzatura propagandistica di sicurezza a buon mercato che propongono gli “umanisti del rinascimento nucleare” italiano) era una “convinzione consolidata” (“mindset”) fino all’accidente di Three Mile Island e perciò la Commissione d’inchiesta (Kemeny, John G. (October 1979). Report ecc.) recita: «Si è convinti che se i soli problemi fossero problemi di apparecchiature, questa Commissione presidenziale non sarebbe stata mai creata. […] Dopo molti anni di attività in centrali elettronucleari, senza venire a conoscenza che qualcuno sia stato danneggiato, LA CREDENZA CHE LE CENTRALI ELETTRONUCLEARI SIANO ABBASTANZA SICURE SI TRASFORMA IN CONVINZIONE. […] La Commissione è convinta che questo modo di pensare deve LASCIARE IL POSTO A QUELLO CHE AFFERMA CHE UN IMPIANTO ELETTRONUCLEARE PER SUA VERA NATURA È PERICOLOSO; e, quindi, che occorre chiedersi continuamente se le protezioni già disponibili sono sufficienti per prevenire accidenti gravi. È necessario un sistema complessivo in cui APPARECCHIATURE E FATTORE UMANO VENGANO TRATTATI CON UGUALE IMPORTANZA».
Dunque, per i componenti della Commissione d’inchiesta sull’accidente di Harrisburg “un impianto elettronucleare per sua vera natura è pericoloso”. Altra musica rispetto alle sviolinate dei fondamentalisti del “rinascimento nucleare”! Eppure i componenti di quella Commissione non erano contro la produzione di energia nucleare, ma comunque erano onesti e disinteressati.
Non è concessa una via di fuga “tecnologica”: apparecchiature e fattore umano hanno “uguale importanza”. E il fattore umano è fallibile sia quando viene incorporato nelle apparecchiature sia quando interviene nella gestione dell’impianto.
Tra i buoni motivi per un ritorno al nucleare secondo l’attuale governo [www.governoberlusconi.it; “Ritorno al nucleare: energia pulita a costi più bassi” (30 luglio 2010)] vi sarebbe questo: «il nucleare di terza generazione è un sistema sicuro». Ma il nucleare “per sua vera natura è pericoloso”: non è questione di “generazioni”.
Anche solo per quello che abbiamo detto finora in vari interventi, del nucleare si può fare a meno, se il problema dell’energia CESSA DI ESSERE IL PROBLEMA DI CHI NE USA TROPPA E MALE. Non per tornare indietro, ma per vivere meglio nelle nostre società ormai intossicate da “overdose” di energia.
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