Nobel per l’economia per il 2010 e mercato del lavoro

19 Ottobre 2010
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Gianfranco Sabattini

Quest’anno il Nobel per l’economia è stato assegnato a due americani e ad un britannico-cipriota: si tratta di Peter Diamond del MIT, di Dale Mortensen della Northwestern University e di Cristopher Pissarides della London School of Economics and Political Science. La coassegnazione del premio non è stata accolta con entusiasmo da molti commentatori: gli insigniti, come accaduto altre volte, sarebbero stati scelti dalla Reale Accademia e dalla Banca centrale di Svezia più per la rilevanza contingente del tema prescelto, il funzionamento del mercato del lavoro, che per l’originalità dei loro contributi.
Il merito degli economisti premiati consisterebbe nell’aver spiegato il perché chi offre lavoro stenta, per via delle molte attriti, a trovare chi lo cerca. Gli attriti esistenti, infatti, non consentono un perfetto funzionamento del mercato del lavoro, originando il fenomeno della perdurante disoccupazione che è la massima delle preoccupazioni di tutti i governi dei paesi industrializzati. I modelli formalizzati dai tre economisti premiati aiuterebbero a comprendere in quali modi la disoccupazione, i posti di lavoro disponibili ed i salari possono essere influenzati dalle politiche economiche e dalle attività regolamentari dei singoli governi. Diamond, in particolare, è stato premiato per aver lavorato per anni intorno alla cosiddetta “curva di Beveridge”, dal nome dell’economista e politico laburista britannico che, dopo il secondo conflitto mondiale, è stato il promotore della realizzazione del welfare state universale. Questa curva, che mette in relazione tra loro i posti disponibili ed il numero degli occupati, è servita a Diamond per dimostrare che quando un sistema economico riprende il processo di crescita dopo una crisi generalizzata, le attività produttive si ristrutturano a spesa della forza lavoro occupata per aumentare la loro efficienza e la loro capacità competitiva. Le attività produttive, in fatti, domandano forza lavoro più professionalizzata rispetto a quella espulsa dal mercato di difficile reperimento, a causa delle sfasature temporali e delle asimmetrie informative esistenti. La conseguenza è che, malgrado la ripresa della crescita del sistema, la disoccupazione resta alta. Gli altri due economisti, Mortensen e Pissarides, sono stati premiati per aver analizzato congiuntamente le diverse forme di attrito che impediscono il regolare funzionamento del mercato del lavoro. Essi, però, si sono limitati a modellizzare le cause degli attriti, ma non a suggerire soluzioni. Molti osservatori sottolineano che il premio assegnato a Mortensen e Pissarides sembra indicare alla società politica una strada da percorrere in vista di possibili soluzioni per il problema della disoccupazione, sebbene i premiati, dopo aver contribuito all’individuazione delle cause delle disfunzioni del mercato del lavoro, non abbiano proposto utili suggerimenti di politica economica per la loro rimozione. Dei tre economisti solo Diamond ha suggerito possibili rimedi alla disoccupazione. Egli, dopo aver dimostrato, semmai ve ne fosse stato bisogno, la persistenza della disoccupazione dopo un fase recessiva nonostante la ripresa della crescita dei sistemi economici, ha anche sostenuto l’esistenza di uno stretto rapporto tra politiche economiche e mercato del lavoro. Nel senso che le politiche pubbliche che vengono attuate possono essere validamente orientate a rimuovere le cause degli alti livelli di disoccupazione, riducendo, ad esempio, la presenza di sussidi e di assegni di sostegno a favore di chi ha perso, durante la fase recessiva, ogni fonte di reddito. La maggior flessibilità del mercato del lavoro realizzata potrebbe così rivelarsi un modo utile per aiutare chi è senza lavoro a ricercare e ad accettare una nuova opportunità occupazionale. Ciò perché, come argomenta la Reale Accademia nella sua relazione conclusiva, sin tanto che si conservano e si espandono i sussidi e gli assegni di sostegno, “può accadere che il livello del tasso di disoccupazione cresca, oltre al tempo in cui si cerca il lavoro”.
Questa affermazione della Reale Accademia concorre a rendere del tutto fondato il sospetto che, nell’assegnazione del premio Nobel per l’economia per il 2010, abbia pesato più la rilevanza contingente del tema trattato, piuttosto che l’originalità dei contributi. Il sospetto appare anche essere corroborato dal fatto che quest’anno il Nobel per l’economia, da sempre assegnato da una Commissione istituita presso la Banca Centrale Svedese che lo finanzia, consente di distrarre l’attenzione dai comportamenti delle istituzioni finanziarie, che sono state all’origine della crisi degli ultimi anni, al funzionamento delle istituzioni dell’economia reale. Inoltre a dare forza al sospetto vi è anche il fatto che le recenti elezioni svedesi hanno visto l’affermazione dei partiti di destra, i quali, notoriamente, al pari della destra USA repubblicana, sostengono che la disoccupazione resta alta perché la presenza di sussidi e di assegni di sostegno tiene lontani i disoccupati dal mercato del lavoro. Una loro riduzione perciò sarebbe strumentale rispetto al miglioramento della funzionalità del mercato del lavoro. Di fronte a tutto ciò, c’è solo da chiedersi perché la Reale Accademia delle Scienze e la Banca Centrale della Svezia non indirizzino la loro attività ed i loro mezzi verso la premiazione, soprattutto nel campo degli studi economici, di un pensiero autenticamente innovativo, che, trascurando la contingenza, contribuisca a disegnare possibili scenari istituzionali in grado di conciliare realmente la crescita dei sistemi sociali con la radicale rimozione di ogni forma di povertà e di disagio sociale. Con questo problema la scienza economica sarà chiamata, in un futuro non molto lontano, a confrontarsi. La rimozione degli attriti al corretto funzionamento del mercato del lavoro nelle condizioni attuali è infatti solo un palliativo utile a spostare di poco nel tempo il momento in cui sarà gioco forza confrontarsi con lo squilibrio strutturale sul piano distributivo tra “chi è entro” e “chi è fuori” dal sistema. A meno che qualcuno non voglia accettare l’idea di un improponibile stato stazionario del sistema sociale o, peggio, l’idea di una sua ingiustificabile “decrescita”.

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