Gianluca Scroccu e Immanuel Wallerstein
C’è spazio ancora per un partito socialdemocratico in Italia? Dai due libri di Mattera e Scirocco presentati di seguito da Gianluca Scroccu sembrerebbe di sì. E questa sembra anche la propensione del giovane storico cagliaritano. La pensa però diversamente un intellettuale del peso di I. Wallerstein in un interessante articolo apparso su Il Manifesto del 12 scorso dal titolo “La socialdemocrazia ha un futuro?” Un quesito intrigante col quale vale la pena cimentarsi. Personalmente rimango convinto che la socialdemocrazia sia morta perché non esprime alcuna carica alternativa, ma di una sinistra d’ispirazione socialista con carattere alternativo al capitalismo c’è necessità e per essa penso ci sia anche spazio (a.p.).
Ecco l’articolo di GL. Scroccu
Dalla Guerra fredda a Mani pulite: vita e morte del Psi
Agosto 1892, Genova. Mentre tantissimi sono i turisti accorsi nel capoluogo ligure attratti dalle celebrazioni del quarto centenario colombiano, contemporaneamente si tiene una riunione politica che porterà alla fondazione del Partito socialista italiano. Una storia lunga, durata cent’anni e terminata nella tempesta di Tangentopoli. Eppure si tratta di vicende dove le lotte di operai e contadini, piccoli impiegati e intellettuali si sono intrecciate all’impegno per la realizzazione di una società dove la giustizia sociale e la libertà fossero valori concretamente realizzati. Nel momento in cui l’ex segretario del Pd Veltroni dichiara che “il socialismo in Europa è morto”, smentito clamorosamente dalla ripresa dei socialisti europei, capaci di portare un quarantenne come Ed Miliband al vertice del Labour, è importante tornare a riflettere sulla storia del Psi per capire quell’anomalia tutta nostrana che ancora impedisce la formazione di un grande partito socialista sul modello affermatosi in quasi tutti i paesi dell’Unione europea tra Ottocento e Novecento.
Due libri, in particolare, si segnalano per la profondità e l’acutezza. Il primo l’ha scritto Paolo Mattera, Storia del Psi 1892-1994 (Carocci, pp. 240, € 17). Ricercatore di storia contemporanea all’Università di Roma Tre, autore di saggi importanti sulla storia politica dell’Italia del Novecento tra cui proprio un lavoro sul Psi dalla Resistenza agli anni Cinquanta, l’autore traccia un ritratto che mette in connessione le vicende centenarie del partito di Turati dalla fondazione alla sua fine nel 1994, con un’attenzione particolare all’analisi della realtà organizzativa interna e al rapporto tra i gruppi dirigenti e i militanti. Dalla propaganda e gli scioperi di inizio secolo, passando per l’opposizione antifascista e l’alleanza con il Pci sino al 1956, per arrivare ai governi di centro-sinistra e all’ascesa di Craxi tra spregiudicatezza, leaderismo e nuovi media sino alla valanga di Mani Pulite.
Dedicato invece ai rapporti tra i socialisti e il contesto internazionale negli anni della guerra fredda è invece il volume di Giovanni Scirocco Politique d’abord. Il Psi, la guerra fredda e la politica internazionale 1948-1957 (Unicopli, pp. 274, € 15). Docente di storia contemporanea all’università di Bergamo, autore di significativi lavori sul movimento socialista e la politica internazionale nel secondo dopoguerra, Scirocco delinea lo sguardo d’insieme che i più importanti dirigenti del Psi, da Nenni a Pertini sino a Basso, De Martino e Lombardi, ebbero del contesto internazionale negli anni di più dura contrapposizione tra i blocchi Usa e Urss. Dal filosovietismo che portò il partito ad appiattirsi sulle posizioni dei comunisti e a trasmettere alla base il mito della supremazia del mito sovietico, sino ai primi ripensamenti che portarono poi, dopo i tragici fatti d’Ungheria del 1956, ad un difficile distacco dal mondo comunista e al riavvicinamento alle principali tendenze del socialismo europeo nel contesto occidentale, elemento decisivo per l’ingresso nei governi di centro-sinistra guidati da Moro.
Fatti che ricostruiti con l’ausilio degli archivi e della stampa dell’epoca illuminano sui motivi per cui in Italia non si è ancora arrivati alla formazione di un partito autorevole secondo il modello delle socialdemocrazie europee, mentre nella sinistra italiana continuano le divisioni determinate da personalismi e nostalgie.
Ecco ora la riflessione di I. Wallerstein
La socialdemocrazia ha un futuro?
Il mese scorso due eventi cruciali hanno segnato il mondo dei partiti socialdemocratici. In Svezia il 19 settembre quel partito ha subito una forte sconfitta elettorale, ottenendo il 30,9% dei voti, il risultato peggiore dal 1914. Dal 1932, aveva governato il paese per l’80% del tempo ed è la prima volta da allora che un partito di centrodestra è stato riconfermato alle elezioni. E per di più, per la prima volta è entrato nel parlamento svedese un partito di estrema destra, contrario all’immigrazione.
Perché la cosa è tanto drammatica? Nel 1936, Marquis Childs scrisse un libro famoso dal titolo Sweden: The Middle Way. Childs presentava la Svezia sotto il regime socialdemocratico come la virtuosa terza via tra i due estremi rappresentati dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. In Svezia la redistribuzione egualitaria si combinava con scelte democratiche nella politica interna. Ed è stata, a partire dagli anni Trenta, il prototipo della socialdemocrazia, la sua bandiera. E così è stato fino a relativamente poco tempo fa. Ma questo non è più vero.
Intanto in Gran Bretagna, il 25 settembre, Ed Miliband è arrivato da una posizione di minoranza ad assumere la direzione del partito laburista. Sotto Tony Blair i laburisti avevano avviato una riforma radicale del partito: «The new Labour». Blair aveva a sua volta sostenuto che il partito avrebbe dovuto imboccare una terza via - non tra capitalismo e comunismo, ma tra quello che un tempo si definiva il programma socialdemocratico di nazionalizzazione dei settori chiave dell’economia e il dominio incontrollato del mercato. Una via di mezzo ben diversa da quella imboccata dalla Svezia a partire dagli anni Trenta.
La scelta dei laburisti, che hanno preferito Ed Milliband al fratello maggiore David, sodale di Tony Blair, è stata interpretata in Gran Bretagna e altrove come un ripudio di Blair e un ritorno ad un partito laburista più “socialdemocratico” (più svedese?). Ma nella prima conferenza tenuta al convegno dei Labour qualche giorno dopo, Ed Milliband si è sbracciato a ribadire la sua posizione “centrista”. Ha però comunque condito le sue affermazioni con allusioni all’importanza della «giustizia» e della «solidarietà». E ha dichiarato: «Dobbiamo liberarci dai vecchi schemi di pensiero e schierarci con coloro che credono che nella vita ci sia qualcosa di più della riga finale di un bilancio».
Cosa ci dicono queste due elezioni sul futuro della socialdemocrazia?
La socialdemocrazia - come movimento e come ideologia - viene convenzionalmente (e forse correttamente) fatta risalire al “revisionismo” di Eduard Bernstein nella Germania di fine Ottocento. Bernstein sosteneva che una volta ottenuto il suffragio universale (ovvero il suffragio universale maschile), gli «operai» avrebbero potuto usare il voto per fare entrare il loro partito, cioè il partito socialdemocratico (Spd), al governo. Una volta ottenuto potere in parlamento i socialdemocratici avrebbero potuto «attuare concretamente» il socialismo. E dunque, concludeva, parlare di insurrezione come modo per andare al potere era inutile e insensato.
La definizione data da Bernstein di socialismo era per molti versi poco chiara, ma ai tempi sembrava comunque includere la nazionalizzazione dei settori chiave dell’economia. La storia della socialdemocrazia come movimento dopo di allora è stata quella di un allontanamento lento ma continuo dalla politica rivoluzionaria verso un orientamento fortemente centrista.
I partiti ripudiarono il loro internazionalismo nel 1914 allineandosi a sostegno dei rispettivi governi durante la Prima Guerra Mondiale. Dopo la Seconda Guerra, poi, quegli stessi partiti si allearono con gli Stati Uniti nella Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica e nel 1959, al convegno di Bad Godesberg, la socialdemocrazia tedesca ripudiò totalmente il marxismo, dichiarando che «da partito della classe operaia, il Partito Socialdemocratico era diventato un partito del popolo».
Quello che l’Spd tedesco ed altri partiti socialdemocratici avevano finito per rappresentare allora era il compromesso sociale che andava sotto il nome di “welfare state”. In quell’ottica, nel periodo della grande espansione dell’economia-mondo durante gli anni Cinquanta e Sessanta, fu un successo. Fino ad allora era rimasto un “movimento”, nel senso che quei partiti potevano contare sul sostegno attivo e sulla fedeltà di un gran numero di persone nel loro paese.
Quando però l’economia-mondo entrò nel lungo periodo di stagnazione iniziato negli anni Settanta e il mondo si avviò alla globalizzazione neoliberale, i partiti socialdemocratici andarono oltre, passando dalla difesa del welfare state al sostegno di una variante più morbida del primato del mercato. Ovvero al “new Labour” di Blair. Il partito svedese resistette a quella direzione più a lungo degli altri, ma alla fine dovette a sua volta soccombere.
La conseguenza di tutto ciò fu però che il partito socialdemocratico smise di essere un “movimento” capace di suscitare la forte adesione e il sostegno di larghe masse e divenne una macchina elettorale cui mancava la passione del passato.
Se la socialdemocrazia non è più un movimento, continua però ad essere una scelta culturale. Gli elettori ancora aspirano ai benefici del welfare state e continuano a protestare man mano che li perdono, cosa che oggi succede con una certa regolarità.
Infine, va detta una parola sull’ingresso del partito xenofobo di estrema destra nel parlamento svedese. I socialdemocratici non sono mai stati strenui difensori dei diritti delle “minoranze” - etniche o di altro tipo - e ancora meno dei diritti degli immigrati; anzi in generale sono stati il partito della maggioranza etnica del rispettivo paese, e hanno difeso il loro territorio contro altri lavoratori, visti come una minaccia per occupazione e salari. Solidarietà e internazionalismo sono stati slogan utili in assenza di concorrenza esterna. Problema che la Svezia non ha dovuto affrontare fino a tempi molto recenti.
Quando poi si è presentato, un segmento dell’elettorato socialdemocratico si è semplicemente spostato a destra. Allora, la socialdemocrazia ha un futuro? Come scelta culturale sì, come movimento no.
(traduzione di Maria Baiocchi)
2 commenti
1 Antonello Murgia
17 Ottobre 2010 - 12:26
La riflessione di Wallerstein è interessante, ma non mi convince. Certo, ciò che è accaduto è innegabile: un arretramento della sinistra ed uno spostamento a destra del suo elettorato. Ma che ciò esprima un’assenza di prospettiva della socialdemocrazia come movimento, ho i miei dubbi. Le questioni sulle quali credo sia necessario indagare più a fondo sono:
a) i meccanismi della creazione del consenso;
b) la coerenza della socialdemocrazia nella difesa dei suoi valori.
Per quanto riguarda il primo punto, va analizzato il ruolo della televisione che a mio avviso ha creato il paradosso di far arrivare fino ai villaggi più periferici le informazioni riducendo sempre più il contraddittorio, l’articolazione delle posizioni, per fare sostanzialmente da veicolo del “pensiero unico”. Ciò è particolarmente evidente in Italia, dove il regime di oligopolio si è trasformato in monopolio con la “discesa in campo” di Berlusconi, ma mi sembra presente anche negli altri Paesi: v. Murdoch che in Italia subisce la posizione dominante di Berlusconi ma altrove cerca di assumerne/ne sta assumendo il ruolo.
Il secondo punto è complicato da esprimere in poche righe, soprattutto per me che conosco troppo poco la socialdemocrazia degli altri Paesi. Ciò che è accaduto in Italia, ma credo abbia valore anche altrove, è che la leadership socialdemocratica ha subito una sua “sindrome di Stoccolma” e non ha difeso il suo territorio, i suoi ideali di riferimento e il suo elettorato (se non vogliamo usare il concetto di classe). Insomma, volendo usare un’immagine calcistica e scusandomi se ripeto concetti già espressi, ad un certo punto la squadra ha venduto il gioiello Gramsci alla squadra avversaria (non ha saputo più esprimere un’egemonia culturale, mentre la destra internazionale l’ha saputa costruire con una intelligente e vasta campagna promozionale) e non è più riuscita a vincere una partita.
L’esempio più fresco è quello della manifestazione di ieri della FIOM per il lavoro: il PD, che continua ad essere paralizzato dai veti contrapposti, non ha aderito come partito. E allora come può poi pretendere di essere il rappresentante dei ceti deboli? Come può sperare di essere percepito dall’elettorato come portatore di un progetto di sviluppo alternativo alla destra che ci sta governando?
Non ho niente da insegnare a nessuno, ma sono convinto che se la sinistra (poco mi importa se la chiamiamo socialdemocratica o socialista o altro) riparte da qui, dalla riappropriazione dei propri temi e delle proprie battaglie, ha ancora molto da dire anche come forza politica organizzata
2 C’è spazio per un partito socialdemocratico? | Politica Italiana
18 Ottobre 2010 - 01:45
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