Andrea Pubusa
Anche a Cagliari, come in tante altre piazze d’Italia, si sono svolte nei giorni scorsi manifestazioni di protesta contro la riforma Gelmini. Da noi c’è stato il rischio anche di uno scambio di controparte. Non il Ministro e il governo, ma il Rettore Giovannino Melis, che invece ha condiviso la mobilitazione del mondo accademico ed ha portato questa posizione anche negli organismi accademici nazionali.
Dopo la protesta davanti al rettorato, la manifestazione si è spostata verso l’aula magna della facoltà di Scienze della Formazione, nel complesso di “Sa Duchessa”, dove si sono uniti altri studenti universitari e delle scuole superiori, nonché ricercatori e docenti per discutere della riforma.
La protesta s’inserisce nel blocco delle lezioni indetto dai Presidi delle Facoltà alla fine di settembre e terminato lunedì arossimo.
Il rettore Melis, che già prima dell’estate aveva indetto un incontro per discutere della Riforma Gelmini, ha spiegato che “i vertici dell’Università hanno stigmatizzato i tagli previsti dalla Riforma Gelmini e condiviso la mobilitazione”. E’ stata invece vivacemente contestata la considerazione del Magnifico secondo cui “le modifiche non sono tutte negative, la riforma va gestita”.
La posizione non è scandalosa, và semmai articolata. E’ innegabile, ad esempio, che ricondurre la concorsualità, almeno quella di prima fascia a livello nazionale, è un fatto positivo. Con la concorsualità locale, più d’un barone, senza essere Caligola, avrebbe potuto mettere in cattedra anche il proprio cavallo. Ed in effetti in quegli anni non pochi colleghi oggi titolari di cattedra a stento avrebbero superato la soglia dell’associazione (2^ fascia).
Ma detto questo, in generale la proposta Gelmini è fortemente negativa, perché c’è al fondo non il rilancio dell’Università pubblica, ma la riduzione della sfera pubblica nell’alta istruzione con l’intento di favorire le istituzioni private. Il giochetto è sempre lo stesso: si tolgono i finanziamenti in modo da rendere inaccettabile il servizio statale fino a rendere auspicabile la prevalenza dell’insegnamento privato. Si è fatto e si fa così in tutti i settori in cui si vuole che il pubblico sia soppiantato dal privato. La chiusura ai ricercatori, il loro precariato vanno in questa direzione ed hanno questa finalità.
Nell’istruzione questo indirizzo è però più dannoso che negli altri campi, perché le scuole e le università private, oltre a selezionare in base al censo, sono caratterizzate dal una sorta di pensiero unico: si toglie ai giovani la possibilità di orientamento autonomo che nasce dal venire a contatto con docenti di varie scuole di pensiero. L’autonomia e la libertà d’insegnamento è una delle basi e al tempo stesso una fucina di democrazia.
Che dire poi dell’altra pensata d’introdurre il cosiddetto 3+2: laurea breve e laurea specialistica. Una cosa è il corso dei primi anni preordinato a formare un avvocato, un magistrato, un dirigente dell’Amministrazione, altra cosa la preparazione di un cancelliere o di un impiegato di concetto. Al primo bisogna dare le basi, insegnare il metodo giuridico, l’interpretazione; ai secondi basta una illustrazione della legislazione essenziale. In breve due percorsi del tutto inconciliabili. Eppure dalla laurea breve si passava alla laurea specialistica in perfetta continuità con danni spesso irrimediabili per i cittadini affidati ai “servigi” di personale mal formato.
E tutto il sistema dei debiti e crediti? Il linguaggio del mercato in un ambito dove dovrebbe essere la cultura seppure orientata ad attività professionali a farla da padrona.
Per molti docenti gli scempi di questi decenni sono stati causa di indicibili sofferenze ed anche d’isolamento, nell’intento di non dar man forte allo scempio. Il che ha anche favorito l’emergere di gruppi dirigenti negli organi universitari non all’altezza.
Tutto questo spiega anche la mancanza di un discorso di verità sull’Università: quanto alle scelte errate dei Ministri e del Parlamento hanno aggiunto gli stessi organi di governo autonomo delle Facoltà e degli Atenei? Moltiplicazione delle sedi e delle cattedre non giustificate da reali esigenze culturali e didattiche, ma pensate solo in funzione della creazione di cordate universitarie fino a smarrire il senso e la funzione di queste istituzioni. Scorrete l’elenco e vi accorgerete dell’assurdità di tanti corsi. Non solo sono inutili, ma danneggiano fortemente gli studenti, molti dei quali inseguono la facilità dell’argomento e il lassismo del docente anziché la funzionalità rispetto ad un percorso culturale e agli sbocchi professionali futuri.
Gli atenei poi non si improvvisano. Sono stato di recente ospite dell’Università di Padova e nella sua sede centrale a Palazzo Bo ho potuto ammirar gli stemmi delle casate degli studenti dei secoli scorsi. Cosa testimoniano questi simboli? Che questo antichissimo Studio riuniva la futura classe dirigente europea (soprattutto mitteleuropea). I rampolli delle grandi famiglie intrecciavano nelle Università quelle relazioni che poi avrebbero mantenuto una volta assurti a importanti funzioni nei rispettivi Stati. Ora, certo non c’è nostalgia per quei tempi, ma per una Università dove si formano in comunità ceti dirigenti almeno regionali, questo sì. Così era anche a Cagliari fino a qualche tempo fa. Personalmente ho conosciuto i politici degli ultimi decenni, i magistrati, gli avvocati, i dirigenti e spesso anche i medici , gli ingegneri importanti fin dai banchi dell’Università o alla Casa dello Studente o nelle manifestazioni studentesche. Anche la ragnatela delle conoscenze di molti amministratori locali veniva da lì. Una rete preziosa di relazioni, la cui utilità travalica l’ambito personale.
Cosa c’entra con tutto questo la proliferazione degli atenei in chiave baronale? E i costi delle moltiplicazioni inutili e dannose? Il salto ad ostacoli di corsi da svolgere in due mesi? Ma nessuno pone questi temi nelle sedi in cui si esprime l’autonomia universitaria, perché sono spinosi e costringono a scelte e a rotture dolorose. Ammetto che prendersela solo coi ministri di turno è più facile ed è anche giusto. Ma è molto, molto parziale. Di tanti mali dell’Università siamo responsabili noi stessi.
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