Gianfranco Sabattini
Le condizioni economiche e sociali in cui versa attualmente il Paese motivano ad approfondire i temi concernenti il disagio sociale originato dalla persistenza delle diseguanzianze reddituali e dalla crescente povertà. Dopo il libro di Edmondo Berselli (L’economia giusta) è ora la volta del libro di Maurizio Franzini (Ricchi e poveri. L’Italia e le disuguaglianze (in)accettabili). Le diseguanzianze, dice Franzini, sono lo specchio del carattere di una società. Ne riflettono le dinamiche economiche, il malessere sociale, i valori culturali, le scelte politiche e l’articolazione del potere. Malgrado tutto ciò, delle disuguaglianze si discute poco. Non solo tra i componenti la società politica, ma anche tra gli economisti. Questi ultimi sembrano maggiormente attratti dai problemi connessi alla crescita, al debito pubblico e alle crisi dei mercati finanziari. Raramente però sono attratti dalla persistenza e dall’aumento delle disuguaglianze. In particolare, dice Franzini, la discussione che manca è quella che riguarda l’accettabilità delle disuguaglianze e dei meccanismi che le generano.
Le disuguaglianze concernono la distanza che separa ciascun individuo da tutti gli altri all’interno del sistema sociale di appartenenza. Rappresentare questa distanza, anche soltanto dal punto di vista economico, non è semplice, in considerazione del fatto che molte sono le variabili di natura extraeconomica che concorrono alla sua determinazione. Tuttavia, limitatamente alle disuguaglianze economiche, con riferimento al periodo compreso tra le metà degli anni Ottanta e la metà del primo decennio di questo secolo, l’Italia, tra i 30 Paesi dell’area Ocse, appare occupare nella classifica della disuguaglianza calcolata rispetto al reddito familiare disponibile uno degli ultimi posti. A questa posizione dell’Italia deve essere ricondotta la consistenza, comparativamente maggiore che negli altri più importanti Paesi europei, del fenomeno della povertà, sia relativa che assoluta. Ciò significa che il benessere economico delle famiglie è molto distante, in termini relativi, da quello prevalente nella comunità di appartenenza. Ma significa anche che molte famiglie, in termini assoluti, non dispongono del “paniere di beni” minimo considerato essenziale per la sopravvivenza fisica. Secondo L’Istat, nel 2008, le famiglie in povertà relativa erano in Italia oltre 2,7 milioni (cioè l’11,30% circa delle famiglie residenti), pari a oltre 8,7 milioni di persone (cioè il 13,60% circa della popolazione residente). Le famiglie in povertà assoluta erano, invece, oltre 1,2 milioni (il 4,6% circa delle famiglie residenti), per un totale di persone pari a oltre 2,8 milioni (il 4,90% circa delle popolazione residente).
In Italia, dunque, sono molti quelli che sperimentano condizioni esistenziali poco dignitose o insostenibili; il fenomeno è reso ancora più grave dal fatto che coloro che vivono in condizioni di povertà restano a lungo vittime della “trappola dell’indigenza” e segnate a lungo dallo stigma dello stato di bisogno. A rendere ancora più drammatica la situazione distributiva italiana è l’alta correlazione persistente tra disuguaglianze reddituali e trasmissione intergenarazionale, che evidenzia come il reddito dei figli appaia fortemente dipendente da quello dei genitori. Fatto, questo, che avrebbe dovuto da tempo indirizzare la società politica ad attuare politiche ridistributive orientate maggiormente a realizzare un’uguaglianza delle condizioni di partenza piuttosto che a realizzare un’uguaglianza delle posizioni di arrivo. Il modello ideale di disuguaglianze accettabili, afferma Franzini, potrebbe essere quello in cui le differenze distributive sono l’esito di un processo che le giustifica in funzione del valore sociale del capitale umano incorporato in ogni singolo soggetto. In questo caso, il valore del capitale incorporato dovrebbe essere assicurato da un’organizzazione complessiva del sistema sociale orientata a garantire a tutti, senza esclusione, le stesse competenze e conoscenze personali. Questo forma di equità distributiva, secondo Franzini, farebbe giustizia delle molte situazioni in cui accade spesso che si diventi ricchi senza meriti e poveri senza demeriti. In altri parole, consentirebbe innanzitutto di evitare che gli eventuali ricchi senza merito, per effetto dei meccanismi intergenerazionali, concorrano a generare altri ricchi senza meriti, con la conseguente incentivazione del non-merito. In secondo luogo, consentirebbe di evitare di considerare, come spesso avviene, le disuguaglianze come il “prezzo della crescita”, dimenticando che non esistono prove empiriche in grado di giustificare l’esistenza di una forte correlazione tra disuguaglianze distributive e crescita; semmai, al riguardo, esistono prove che dimostrano il contrario. In terzo luogo, consentirebbe di rifiutare il convincimento, non disinteressato, che i sistemi sociali ugualitari sono “noiosi e tristi”. Si tratta di un convincimento del tutto infondato, considerato che nessuno ha mai dimostrato che sistemi sociali “accettabilmente disuguali” sono più tristi e noiosi dei sistemi sociali afflitti da inaccettabili e non giustificabili ineguaglianze. Questi ultimi è del tutto improbabile che riescano a riempire di allegria chi subisce da vicino lo stigma della povertà a causa dell’esistenza di ricchi privi di meriti. Infine, consentirebbe di ridimensionare l’idea di chi, attribuendo la causa della povertà alla crescita, invoca politiche pubbliche per frenarla o addirittura per favorire la “decrescita”. Una distribuzione più equa potrebbe anche comportare una limitazione della crescita economica complessiva nel breve periodo; ma il sacrificio, come l’esperienza sta a dimostrare, sarebbe compensato nel lungo periodo in termini di riduzione della povertà e del disagio sociale.
Dal punto di vista della teoria economica, quest’ultima osservazione costituisce una conclusione rivoluzionaria. Infatti, a differenza di quanto si era soliti pensare nel passato, le condizioni attuali di funzionamento dei sistemi economici in una prospettiva dinamica impongono che la massimizzazione dei risultati in termini di crescita debba essere subordinata all’equità della sua distribuzione. Con ciò, la Teoria delle giustizia di John Rawls, che considera equa una distribuzione anche ineguale del benessere purché siano avvantaggiati coloro che stanno peggio, cessa di rimanere, come alcuni vorrebbero, solo una teoria per combattere la povertà, per divenire parte integrante della teoria economica.
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