Andrea Raggio
Nella vicenda del dimissionamento di Alessandro Profumo, amministratore delegato di UniCredit, la Lega ha svolto un ruolo non marginale. Il suo obiettivo era ed è quello di mettere le mani sulla maggiore banca italiana e, nello stesso tempo, fare un favore a Berlusconi aiutandolo a liberarsi di un banchiere geloso della propria autonomia. Umberto Bossi non l’ha mandato a dire: “… ci prenderemo le banche del Nord”. Per fare che? Per fare, lascia intendere, una politica del credito legata al territorio. Questa ineccepibile esigenza non contrasta affatto, però, con la grande dimensione della banca. Alle banche, spiegava Mario Sarcinelli, si chiede una duplice efficienza, quella gestionale e quella territoriale. Non c’è dubbio che questa duplice esigenza può essere meglio soddisfatta con la modernizzazione e razionalizzazione degli istituti di credito.
In realtà la Lega coltiva l’idea di una banca ridotta a feudo locale per rafforzare la sua sfrenata bramosia di potere politico e clientelare. A questo fine fa leva sulle Fondazioni bancarie, nelle quali la Lega ha messo e sta mettendo “persone più vicine al popolo” attraverso gli enti locali a gestione leghista. La conseguenza è la strumentalizzazione partitica del sistema creditizio, delle autonomie locali e delle Fondazioni bancarie, con esiti negativi proprio sullo sviluppo del territorio.
Ma perché gli enti locali devono occuparsi dell’assetto delle Fondazioni bancarie e loro tramite di quello delle banche? Non sto parlando, sia ben chiaro, della politica bancaria delle istituzioni pubbliche e del doveroso contributo delle autonomie locali alla sua definizione, ma della nomina degli amministratori e della formazione del capitale azionario. Questa interferenza espone il sistema bancario, il caso della Lega lo dimostra, al mutar di vento della politica. Quando si trattò di privatizzare il Banco di Sardegna il compito della Fondazione fu facilitato dal fatto che i suoi amministratori furono nominati dal ministro del Tesoro, allora Carlo Azeglio Ciampi, al di fuori delle logiche lottizzatrici. Nonostante ciò non fu facile il compito di liberare il Banco dall’invadenza dei partiti e i partiti dall’invadenza del Banco, a causa della forte ostilità di parte consistente del mondo politico prigioniero della vecchia visione della politica creditizia incentrata sulla “banca della Regione”. Così la privatizzazione del Banco, anche per l’assenza di una politica regionale del credito (altra cosa rispetto alla “banca della Regione”) ha zoppicato. E da quando il potere di nomina è passato agli enti locali, i partiti hanno ripreso a interferire.
Il sindaco di Adro ha inondato con 700 simboli della Lega l’edificio di una scuola, strumentalizzandolo a fini partitici. La protesta contro lo scempio costringe il ministro Gelmini a un tardivo quanto flebile invito a rimuovere i simboli. Il sindaco risponde: prima d’essere sindaco sono militante leghista, rimuovo se me lo chiede Bossi. E i ministri della Repubblica Maroni e Bossi che fanno? Si limitano a un paterno buffetto: bricconcello, non dovevi esagerare! L’invasato sindaco andava esonerato, col commissariamento del comune, per atti contrari alla Costituzione. Invece sta ancora lì, e la tolleranza sprona i leghisti a fare peggio nei comuni che gestiscono.
L’abuso del potere locale alimenta non solo la mala politica ma anche il malaffare. Gli esempi sono tanti, soprattutto nel Mezzogiorno. Anche in Sardegna vi sono amministratori (pochi fortunatamente, ma non per questo meno deplorevoli) che antepongono i loro interessi e quelli dei loro amici agli interessi della comunità, e abusano del loro potere e dei soldi pubblici per perseguitare gli imprenditori che non fanno parte e non vogliono far parte del giro. Anche in questo caso il potere politico regionale e statale sonnecchia.
All’eccesso regionalistico, infine, spesso si fa ricorso per coprire il vuoto politico. Parliamo di riforma dello Statuto. Sono convinto che ancora una volta si sia partiti col piede sbagliato. Si doveva procedere con la preliminare analisi dei cambiamenti intervenuti (nel diritto nazionale e comunitario, nella condizione della Sardegna, nei rapporti con lo Stato e con l’Unione europea) e delle potenzialità (le risorse umane, l’ambiente, l’insularità e la centralità mediterranea, l’allargamento dei mercati). E su questa base si dovevano individuare le finalità strategiche e i nuovi indirizzi statutari da tradurre in norme, coinvolgendo da subito in questo lavoro il Parlamento. Invece si sono volta messe in campo ancora una volta confuse pregiudiziali ideologiche, dando vita un’insulsa gara a chi è più oltranzista, identitario, indipendentista, etnonazionalista e via pasticciando. La conclusione, temo, è che anche questa volta il cantiere della riforma si chiuderà con un nulla di fatto.
Ho fatto questi esempi (molti altri se ne possono aggiungere) per concludere che l’eccesso localistico e regionalistico, con le venature etnocentriste che lo caratterizzano, sta trasformando l’autonomismo da cemento dell’Unità nazione, quale è nella visione costituzionale, nel cavallo di Troia del secessionismo. E che è una pericolosa illusione ritenere che il processo disgregatore giovi alla Sardegna in quanto creerebbe spazi alla “indipendenza”. In realtà la espone all’emarginazione. Ecco perché l’autonomismo deve essere accompagnato dal rafforzamento del potere politico nazionale (democratico e non centralistico). Ed ecco perché non c’è alternativa a una visione dell’Autonomia come entità istituzionale e politica che concorre a fare dell’Italia una “Repubblica una e indivisibile”.
1 commento
1 Bomboi Adriano
27 Settembre 2010 - 12:01
E dove sta scritto che uno Stato non può modificare le sue istituzioni?
Mi spiace Raggio ma la sua cultura “uno stato, una nazione” è al tramonto in buona parte dell’Europa e del mondo. Le minoranze hanno dei diritti e devono cercare di esercitarli politicamente.
L’emarginazione è proprio quella invece di vivere in uno stato centralista, nel quale la periferia, non sufficientemente rappresentata, non ha capaci margini di manovra proprio nei confronti di quell’internazionalismo economico e culturale che, lo stato-nazione classico non può gestire. E non a caso infatti emergono solo i più forti: coloro i quali hanno più rappresentanza in Parlamento e nel Governo. Non è il caso della Sardegna.
Già Attilio Deffenu nel 1910 poneva tali questioni.
In questo quadro bisogna dunque domandarsi se si vuole promuovere le nostre peculiarità identitarie (politicamente spendibili) per ottenere maggiore sovranità, oppure se si intende rintanarsi nel mito dell’unità a prescindere ignorando la nostra completa irrilevanza in questo Stato: mentre le nostre esigenze economiche vengono puntualmente disattese, a prescindere dai colori della maggioranza di turno.
Non ci sono dubbi che questo secondo caso, paventando immaginari rischi di “emarginazione”, si pone sotto un profilo puerile e parziale rispetto al tema dell’autonomismo/indipendentismo e della comprensione di quelle dinamiche che in tutto il mondo vanno maturando analoghi (e più evoluti) processi di identificazione territoriale per lo sviluppo economico e culturale.
L’Italia insomma è in forte ritardo nel processo federale, ed una delle cause è proprio la resistenza ideologica a tale fenomeno: spesso incrementata sia dallo scarso livello di analisi politologica rispetto ad altri Stati, sia per la presenza della Lega Nord, che ha saldato tali ritardi all’avversione (spesso non immotivata) verso IL MODO di proporre la soluzione federale.
Che poi l’indipendentismo intenda isolarsi, caro Raggio, è una fantasia bella e buona.
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