Gianfranco Sabattini
Giorgio Ruffolo ha recentemente ripercorso (in Quando l’Italia era una superpotenza) i due momenti in cui le formazioni statuali presenti nella penisola italica hanno vissuto una indiscussa superiorità culturale, politica ed economica, su una buona parte del mondo conosciuto. E ciò non per trarre motivo di consolazione da “un così delusorio presente”, ma per incoraggiare la ricerca di un’identità che agli italiani ha sempre fatto difetto, a tal punto da impedire, sino alla fine del XIX secolo, la creazione di uno Stato nazionale. Ruffolo, non intende fare opera di storia, intende semmai realizzare una narrazione del passato che possa stimolare negli italiani di oggi la loro immaginazione e aiutarli così a cogliere, almeno, la vocazione universalistica della loro esperienza storica.
Ruffolo, da Fernad Braudel trae l’intuizione che un sistema sociale per trasformare la propria economia arcaica in modo di produzione capitalistico e il suo potere economico in potere politico ha la necessità di disporre dell’accumulazione di grandi stock di capitali (accumulazione originaria). Forse sulla scia di Giovanni Arrighi è probabile che abbia tratto l’ulteriore intuizione che la dinamica interna del capitalismo è caratterizzata dal fatto che, in corrispondenza di ogni ciclo della sua espansione e della riorganizzazione del suo “contenitore” politico, ha bisogno di un’area progressivamente più vasta, per creare le condizioni propedeutiche all’avvio di una nuova fase di accumulazione e favorire il consolidamento della sua potenza economica e politica. Sulla scorta di queste intuizioni, Ruffolo narra, in primo luogo, del momento in cui la città-stato di Roma antica diventa, con la Repubblica e con il decentramento istituzionale di Augusto un impero travalicante la dimensione delle penisola nella quale è stata originariamente fondata. Un impero che però presto è declinato a causa delle invasioni barbariche e delle reazione dei popoli conquistati alla pretesa degli imperatori del basso impero (Dominato) di ricentralizzare il potere politico per negare loro la visibilità alla quale aspiravano. In secondo luogo, Ruffolo narra del momento in cui, dalla diffusione delle città-stato italiane del Medioevo, nasce la potenza economica e politica, anch’essa transnazionale, delle Repubbliche del mare e dei Comuni dell’interno e del loro declino alla fine del XV secolo.
La narrazione è affascinante, coerente, coinvolgente e ben documentata. Tuttavia, nel primo come nel secondo racconto ricorrono due tesi che non contribuiscono affatto a stimolare gli italiani a ricercare una propria identità nella storia del loro passato. La prima tesi, riferita alla Roma imperiale, è quella secondo cui l’Impero sarebbe andato incontro ad un inevitabile declino a causa del divario che si sarebbe aperto tra la modernità del contenitore istituzionale, flessibile, decentrato e leggero, realizzato dalla Repubblica e la crisi di un economia, che pur incorporando le premesse di un suo possibile sviluppo in senso dinamico e capitalistico, si sarebbe arrestata in una fase di quasi stagnazione. La seconda tesi è quella riferita alle città-stato marinare e comunali dell’Italia medievale. Secondo questa tesi, tutte le repubbliche cittadine, malgrado la loro potenza economica e politica, non sarebbero riuscite a percorrere la via della formazione dello Stato nazionale seguita dagli altri grandi Paesi europei. E ciò in ragione della loro incapacità di trasformarsi in un grande Stato territoriale. Conseguentemente, le città-stato medievali, pur avendo realizzato l’accumulazione di una cospicua ricchezza e rese operative molte delle istituzioni del capitalismo moderno, sarebbero andate verso un duplice risultato: da un lato, avrebbero mancato di tradurre la loro ricchezza in potenza politica; dall’altro, avrebbero trasfigurato questa circostanza negativa in bellezza artistica. Se questa è decadenza, sostiene Ruffolo, la si può accettare a sereno orgoglio. Come se si potesse considerare quest’ultimo risultato come valido succedaneo della mancata realizzazione dello Stato nazionale. Così, citando Braudel, Ruffolo conclude affermando che poiché ogni “cultura che si irradia consuma, come una candela, il corpo da cui trae luce”, quando è calata sull’Italia la notte, tutto il resto dell’Europa si è illuminato.
Sia la prima che la seconda tesi possono contribuire a stimolare l’immaginario collettivo degli italiani sul proprio passato per la ricerca di una loro identità che sinora, dopo 150 anni di unità nazionale, non è stata ancora completamente raggiunta? Si può fondatamente dubitare che alla domanda possa essere data una risposta affermativa. Perché più individui possano riconoscersi in un sistema di valori esprimente una soggettività statuale occorre che essi consensualmente, nella libertà, condividano tali valori su un piano di perfetta parità. In alternativa, occorre che dall’insieme originario degli individui emerga un gruppo i cui componenti riescano a permeare, sia pure in presenza di potenziali conflitti, dei propri valori anche i restanti individui, esercitando su questi un’egemonia culturale e politica in senso gramsciano. Con riferimento alla Roma imperiale, in tutte le sue fasi storiche, nessuna delle due alternative può essere ipotizzata, perché la cultura romana era schiavista. Anche con riferimento all’Italia delle città-stato medievali entrambe le alternative non sono ipotizzabili perché i rapporti tra gli individui, tra i gruppi di individui all’interno delle singole città e tra le città stesse erano di tipo signorile, ovvero erano rapporti di dominanza e non di accettazione. La natura prevalente di questi rapporti, anche a causa delle ristrette dimensioni territoriali delle quali disponevano, ha motivato i gruppi dominanti a destinare la loro ricchezza al finanziamento di un’”economia del prestigio”. Gli esiti del consumo “cospicuo” da questa originato e tradottisi in parte in patrimonio artistico, anziché esprimere, come avrebbero dovuto, il rifiuto di un’organizzazione sociale illiberale, ne hanno invece espresso l’immodificabilità e la reiterazione nel tempo. Ciò ha contribuito alla creazione di un “blocco storico” avanti lettera tra gruppi signorili dominanti e Chiesa cattolica, ispiratrice dei valori espressi da gran parte di quel patrimonio artistico. Un blocco che ha impedito che l’evoluzione delle città-stato percorresse la via dell’edificazione di uno stato nazionale, sorretto, questo, dall’approfondimento e dall’allargamento di un’identità che gli italiani hanno mancato di maturare completamente anche dopo l’unità, tanto che, al presente, l’individualismo mai rimosso ereditato dall’esperienza del tardo Medioevo italiano, nascosto ora dietro la “facciata di comodo” dell’ideologia leghista sempre più diffusa, sta portando alla disintegrazione del Paese.
5 commenti
1 vale
13 Settembre 2010 - 12:03
per me l’identità e l’intelletto razionale e colto non si incontrano
l’identità coinvolge una parte molto più profonda di me…è la cultura che mi circonda , è il silenzio della mia terra e poi è la riapertura verso il mondo …ma di tutto il mondo non solo dell’Italia
2 vale
13 Settembre 2010 - 13:23
Così mistificate
ho scritto se si immagina Diana che irradia su Roma o se si guarda la luna che brilla sulla Sardegna
3 Bomboi Adriano - SANATZIONE.EU
13 Settembre 2010 - 13:34
Credo che sia la lettura di Ruffolo che di Sabattini sia viziata alla base dal retaggio romanticista uniformatore tardo-ottocentesco dello stato-nazione: ovvero una nazione, uno stato, una sola identificazione culturale ed istituzionale possibile.
Quasi che tutto il resto sia “apocrifo”.
Non condivido del tutto quanto è stato detto, soprattutto se si guardano tempi e modalità della formazione del Regno d’Italia con, ad esempio, l’unificazione tedesca avvenuta con Bismarck nella seconda metà dell’800 (quindi analogo periodo d’Italia).
In quest’ultimo caso fu anche l’omogeneizzazione linguistica a far maturare (incalzata dalla guerra con la Francia), e seppur in ritardo rispetto, ad esempio, alla maturazione dello Stato francese, i crismi dello stato-nazione.
I rapporti di forza basati sul modello signorile (e quindi di dominazione) del resto esistevano anche in Francia, espressione del modello feudale sorto essenzialmente per la chiusura dei tradizionali commerci marittimi nel Mediterraneo occidentale con la caduta dell’impero romano d’occidente e l’affermazione dell’Islam.
Ma più tardi, per mutare la rigidità istituzionale, i giacobini francesi sapevano interloquire con le masse, non perché fossero “più bravi”, ma perché potevano comunicare più facilmente. Quì invece ancora nel primo conflitto mondiale i Savoia dovettero ammaestrare un reparto militare (come la Brigata Sassari) per impartire ordini omogenei che, altrimenti, per diversità di lingua rispetto ad altri reparti, non potevano essere recepiti nello scacchiere bellico. Come sul fronte Austriaco.
Da noi il nord Italia ha sempre considerato il sud e le isole come un’entità diversa, da conquistare, sfruttare ed omologare.
Non la stessa entità da ricondurre dentro gli stessi confini.
Che dire poi del Regno Unito? Nominativo formato infatti da 4 nazioni diverse che alimentano lo Stato del sistema Westminster.
Se si chiede ad un cittadino di Edimburgo la sua nazionalità, non risponderà “inglese”, ma scozzese.
Eppure fa parte delle stesse istituzioni di un londinese (con uno specifico livello di autonomia).
Da noi invece l’identificazione forzata con l’Italia (stato-nazione) si è sviluppata per alcuni motivi essenziali: non solo durante la fase fascista, ma anche col successivo boom economico italiano, che tra scuola, media e sport hanno assimilato ed omologato in misura maggiore culture diverse.
La verità è che comunque la si veda, la frase di Metternich non era poi così campata in aria o strumentalmente lanciata nel dibattito politico dell’epoca: “La parola Italia è un espressione geografica, non politica”.
La fondazione della Nazione Italiana pertanto può essere inquadrata come una manovra assimilazionista, elites monarchiche, militari ed intellettuali hanno cercato di unificare culture, lingue, economie e sensibilità diverse.
Se osserviamo la storia del Canada dal 1867 ad oggi, tra aree francofona ed anglofona, ma anche economicamente eterogenee, l’assimilazionismo è quasi sempre fallito e tira avanti a suon di compromessi ed innumerevoli trattati di reciprocità multiculturale che si rinnovano alla media di 15 anni l’uno dall’altro da oltre un secolo. Non ci sono ragioni per le quali quì dovrebbe andare diversamente nella formazione di una (direi inutile) ricerca del mito (una univoca coscienza nazionale), cercando magari di “nascondere” le più disparate sensibilità, spesso bollate come campaniliste. Ed è nel pieno diritto dei Popoli trovare una loro rappresentatività, e non sottostare al dominio di istituzioni centraliste (come quelle italiane).
Naturalmente parlo da Sardo, non da “Padano”…
E noi Sardi andiamo maturando un silente nazionalismo politico da ben prima che i supposti campanilismi (anzi, culture), potessero trovare una qualche maschera nel leghismo.
Se per ipotesi fossimo rimasti sotto la Corona d’Aragona, magari oggi faremmo analogo discorso nei confronti di Madrid…In sintesi, le nazionalità (e quindi l’emotiva identificazione di una serie di elementi in date istituzioni) non si possono imporre per legge.
E questo non dovrà far scandalizzare se alcune comunità intendono superare l’attuale conformazione delle nostre istituzioni.
4 vale
13 Settembre 2010 - 13:54
Braudel Un mondo con i confini aperti non sopporta le menti chiuse
Io Braudel non l’ho letto, ho appena trovato questa frase è mi è piaciuta
5 Bomboi Adriano - SANATZIONE.EU
13 Settembre 2010 - 14:00
Concordo con quella frase Vale, infatti tutti i moderni nazionalismi territoriali in Europa e nel mondo oggi intendono sprigionare il loro potenziale verso il mondo che oggi è chiuso negli angusti confini di certi centralismi che ne coordinano cultura ed economia…
E’ proprio l’intermediazione di questi centralismi che le minoranze devono superare.
L’indipendenza quindi non è più solo introspezione, ma estroversione.
Lascia un commento