Carlo Dore jr.
All’indomani della decisione attraverso cui la Corte Costituzionale ha disposto l’annullamento del c.d. Lodo Alfano, della legge che prevedeva la sospensione dei processi in corso nei confronti delle “Alte cariche dello Stato, il premier ha conferito ai suoi consiglieri giuridici l’incarico di predisporre una nuova rete di salvataggio in grado di proteggerlo dal baratro costituito dal giudizio del Tribunale di Milano, di approntare un nuovo scudo utile a ripararlo dai processi sgraditi sempre sulla base dell’abusato assioma in forza del quale, se tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla legge, il cittadino investito del consenso popolare deve essere considerato “un po’ più uguale degli altri”.
Dopo giorni di intensa riflessione, ecco che l’infaticabile intelletto dell’avv. Ghedini – silenziosamente coadiuvato dal guardasigilli Alfano – ha generato un complicato marchingegno di ingegneria processuale caratterizzato dalla presenza di tre diversi momenti, definibili rispettivamente come la soluzione a lungo termine, la soluzione a breve termine e la fase del ricatto. In questa prospettiva, trova infatti la sua ragion d’essere la proposta (in cui appunto consiste la soluzione a lungo termine) di riapprovare un nuovo Lodo per via costituzionale, così da neutralizzare – seppure parzialmente – gli argomenti utilizzati dalla Consulta nella sentenza dell’ottobre 2009. Sempre in questa logica, appare evidente la ratio che ispira la “soluzione a breve termine”, ovvero la leggina sul legittimo impedimento – unico caso nella storia di legge ad incostituzionalità autocertificata – volta a garantire una paralisi dei processi milanesi per il tempo richiesto ai fini del completamento della procedura di revisione della Carta Fondamentale.
Ma tra le pieghe delle “grandi riforme condivise”, delle soluzioni di ampio respiro per superare la fase di conflittualità tra politica e giustizia, non poteva mancare la nota inquietante e vagamente minacciosa costituita dalla fase del ricatto, dalla formulazione di un disegno di legge (quello sul c.d. processo breve) la cui approvazione finirebbe col cancellare gran parte dei processi relativi a reati commessi prima del maggio del 2006, e per i quali siano decorsi oltre due anni dalla richiesta di rinvio a giudizio.
Anche la logica che ispira il braccio armato del Presidente del Consiglio risulta facilmente intelligibile: viene minacciato un colpo di spugna su migliaia di procedimenti in corso (da quello relativo al rogo della Tyssen al processo ai “furbetti del quartierino”) per paralizzare i tre processi a carico dell’Utilizzatore finale. Non siamo nella Chicago degli anni’30 né in uno stato libero del Bananas: siamo nell’Italia del ventunesimo secolo, dove la democrazia fondata sul ricatto viene posta ad uso e consumo dell’uomo solo al comando.
Eppure, tra lo sconcerto di gran parte dei giuristi democratici, il meccanismo sembrava funzionare alla perfezione: non a caso, dopo l’entrata in vigore del provvedimento che ha sospeso per diciotto mesi le udienze a carico del Presidente, questa sorta di amnistia mascherata (approvata a ritmi serrati dal Senato, tra le grida di guerra rivolte dai berluscones all’indirizzo delle toghe militanti) è stata dall’oggi al domani seppellita in uno dei tanti binari morti lungo i quali si articolano le procedure parlamentari.
Ma, nel giro di pochi mesi, ecco che l’emergenza processuale ha ripreso a turbare la quiete dorata di Villa Certosa: la scure della Consulta sta per abbattersi anche sul legittimo impedimento, e le fibrillazioni innescate in seno alla maggioranza di Governo dalla repentina svolta legalitaria della componente che fa capo a Gianfranco Fini hanno messo in dubbio l’introduzione dell’immunità attraverso una legge costituzionale. Le udienze stanno per ripartire, le sentenze si avvicinano, le toghe militanti fanno paura: il premier parte al contrattacco, progetta iniziative ad effetto come improbabili discorsi alla Nazione o fantasiosi messaggi all’Unione Europea contro i giudici politicizzati. E soprattutto, ordina a Ghedini e alla Bongiorno: liberatemi dai processi.
Eppure, la maggioranza non è più coesa, e l’opposizione non sembra, almeno su questo terreno, disponibile ad aprire altre sciagurate trattative. E allora? E allora ricompare il ricatto insieme al ghigno del Caimano: il processo breve viene sdoganato dal binario morto e ritorna ad essere “una priorità nell’agenda dell’Esecutivo”. Fermare tre processi o cancellarne trecentomila? Cercare un’altra “soluzione finale” o correre il rischio di vedere trasformata in diritto vigente la minaccia dell’amnistia mascherata? Resistere o sottostare alla logica del ricatto? Questo è il dilemma che attanaglia il Parlamento agli albori dell’ennesimo autunno caldo sul fronte dei rapporti tra politica e giustizia.
No, non siamo nella Chicago degli anni ’30: siamo nell’Italia di Berlusconi, dove la logica del ricatto e la voluntas dell’Uomo solo al comando stanno alla base di quella Costituzione materiale troppo spesso invocata dagli esponenti del PDL. Ed è alla necessità di assecondare ad ogni costo la volontà del Princeps che risulta funzionale la legge sul processo breve: l’ennesima legge figlia del ricatto, l’ennesimo segno di debolezza di una democrazia alla deriva.
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