Un fantasma si aggira nella crisi

31 Agosto 2010
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Ida Dominijanni - Il manifesto, 13 luglio 2010

La recensione di un libro dedicato al “lato osceno della crisi” multidimensionale che attraversiamo.

Si intitola «Il grande crollo» il volume a più mani, curato da Laura Bazzicalupo e Antonio Tursi e edito da Mimesis, che il Laboratorio Kelsen dedica ad un bilancio multidisciplinare (economia, politica, diritto, ma anche altri saperi e linguaggi che economia, politica e diritto solitamente non frequentano, come la psicoanalisi) della crisi che ha scosso negli ultimi due anni il capitalismo globale inficiandone la «grande narrazione» neoliberista che ne aveva sostenuto le magnifiche sorti progressive. Ormai la crisi, scrivono i curatori, «è ufficialmente dichiarata ‘game over’, passata, superata»; il peggio, come ministri e politici non cessano di dirci, sarebbe alle nostre spalle. Ma a parte l’ottimismo strumentale dei politici e dei ministri, tutto da verificare, restano comunque sul campo, tutti da analizzare, gli effetti economici e politici, i traumi sociali, i ridislocamenti della soggettività che la crisi ha prodotto. Nonché i suoi occultamenti, i suoi non detti, i suoi fantasmi: il suo lato osceno, fuori-scena, non rappresentato, taciuto e tacitato, perché irriducibile a quella lettura rassicurante che toglie alla crisi il suo carattere di evento dirompente e la riduce a una semplice e superabile incrinatura nel continuità del capitale.

Proprio a svelare questo lato osceno si dedica invece il contributo al volume di Laura Bazzicalupo, che qui segnalo in particolare non perché sia l’unico rilevante - al contrario -, ma perché il taglio che adotta per leggere la crisi, a cavallo fra l’andamento dei fatti, la loro rappresentazione nel discorso mediatico e politico, l’immaginario sociale mobilitato e il «reale spettrale» occultato, opera di per sé anche un taglio nel discorso economico mainstream, aprendo così punti di avvistamento per «un pensiero radicale della crisi stessa» che esulano dal già detto e dal già archiviato.

Ci sono i fatti, dunque, e i dati, troppo frettolosamente macinati dalla macchina dell’informazione: il primo round che colpisce il sistema bancario americano e internazionale, il secondo round che a ruota colpisce la crescita mondiale (dimostrando che economia reale ed economia finanziaria non si possono più separare né fattualmente né concettualmente), il terzo round che scopre la necessità di una qualche regolamentazione del capitalismo globale decretando la fine dell’ubriacatura trentennale neolib. Fatti e dati significano anche corpi e affetti: tre milioni di famiglie americane a rischio di insolvibilità, i manager che traslocano, il crollo della credenza nei fondi d’investimento, nei fondi pensione, nelle carte di credito e in tutta la costellazione di microcomportamenti quotidiani con cui la finanziarizzazione del capitale è entrata nelle nostre case e nelle nostre abitudini. Una catastrofe materiale, psicologica e ideologica, che come tale - entriamo nel livello della rappresentazione - viene nell’immediato percepita dai media in tutto il mondo, ma che il seguito del discorso economico-politico tenterà rapidamente di ricondurre a una fisiologica fluttuazione dell’economia capitalistica, riducendo altresì le responsabilità a mere trasgressioni da disciplinare per ripristinare il «corretto» funzionamento del modello. Un’operazione di normalizzazione, un racconto tranquillizzante che però sconta un resto: «Quali fattori vengono in rilievo e quale nucleo traumatico non viene detto - come osceno, pericoloso, non pertinente - oppure viene detto in modo dimidiato, alleggerito, quasi per neutralizzare l’apparizione spettrale che terrorizza, il fantasma che genera ansia e ossessiona?». E qual è questo spettro che si aggira fra noi dopo la crisi?

E’ esattamente lo stesso spettro che l’immaginario del postfordismo trionfante (non senza continuità con quello del fordismo, argomenta l’autrice, a onta delle dichiarate discontinuità) aveva conculcato e forcluso: il rapporto sociale di dominio irrappresentabile nell’ideologia di mercato, il lato d’ansia, dipendenza e incertezza strutturale di un precariato a lungo spacciato per anticamera dell’intraprendenza imprenditoriale, il carattere servile delle relazioni di lavoro cresciute all’ombra della creatività geniale che doveva cambiare il mondo, i marginali esclusi dal ’socialismo dei fondi pensione’ che conquistava i salariati al mercato finanziario, la disuguaglianza sociale che aumentava sotto le promesse della crescita illimitata, la violenza di cui quella crescita di avvaleva, l’alienazione e mercificazione delle relazioni umane nascoste sotto l’imperativo del godimento e del consumo. E la solitudine come risvolto innominato del capitalismo cognitivo che produce comunicando, nonché dell’immaginario «quasi-dionisiaco, quasi-ludico,quasi-artistico, emotivo e creativo» del lavoro autonomo - un immaginario potente perché radicato in un bisogno reale di personalizzazione, sburocratizzazione, de-disciplinamento del lavoro. Lo spettro è questo lato oscuro, questo rovescio non detto, della rivoluzione «liberticida e liberogena» postfordista. La rappresentazione mainstream della crisi ha fatto e farà di tutto per non farlo materializzare. E invece è proprio lui, lo spettro, che può spezzare «la danza immobile» degli allarmi economici senza conseguenze: guardandolo in faccia, «forse ci si può muovere davvero».

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