Marek Halter La Repubblica, 15.7.2010
La statua che lo rappresenta sta davanti al municipio: non è mai stata danneggiata. Né i nazisti, né i sovietici dopo di loro, si sono azzardati a toccarla: è lì, protetta dalla sua stessa leggenda
Oggi c´è chi l´ha trasformato in un piccolo amuleto da vendere nelle botteghe: tanti lo acquistano
Un anziano signore mi ha detto: “Lo tengo come portafortuna”
A Praga, davanti al municipio cittadino, troneggia l´imponente statua del gran rabbino Loew Jehouda ben Bezalel (1512-1609), detto il “MaHaRaL”, il cabalista. La statua ha più di un secolo e nessuno - né i nazisti, né i sovietici dopo di loro, e neppure i graffitari odierni - si è mai azzardato a danneggiarla. È là, sempre identica, protetta dalla sua stessa leggenda. Durante il processo dell´ “Ebreo Slánský” nel 1952 - intentato dal potere stalinista contro le spie e i “cosmopoliti”, ovvero gli ex dirigenti comunisti di origine ebraica - il governo sistemò delle guardie tutto intorno al monumento, per proteggerlo da eventuali aggressioni antisemite. Jiri Danicek, presidente delle comunità ebraiche della Repubblica Ceca, osserva con umorismo che «gli stessi uccelli evitano di poggiarsi sulla testa del MaHaRaL».
Perché questa singolare eccezione? Per paura di una maledizione. È là che nacque, fatto di parole e fango, il primo umanoide della storia, il Golem, e a distanza di così tanto tempo dalla sua morte, il suo creatore incute ancora paura. I praghesi raccontano che nel 1941 Heydrich, neoeletto governatore ausiliario del Reich in Boemia-Moravia - regione che Hitler poi trasformò in protettorato - avrebbe proposto al suo amico Himmler di sfruttare la forza del Golem per vincere la guerra. Appassionato di esoterismo, Hitler approvò. Era tuttavia necessario decifrare le formule della Cabala che una notte dell´anno 1600 avevano permesso l´apparizione del prodigio davanti alla folla ammassatasi ai piedi della Sinagoga Vecchia-Nuova.
All´epoca l´Europa era in fiamme: cattolici e protestanti si facevano la guerra. Erano divisi su tutto, fuorché nell´odio per gli ebrei. Le persecuzioni antisemite si moltiplicarono. Gli ebrei si rivolsero al loro rabbino chiedendo protezione. Egli esitò, ma alla fine si fece consegnare migliaia di secchi pieni di fango argilloso estratto dal fiume Moldava che attraversa la città. Con esso modellò una forma gigantesca, dai contorni vagamente umani, e in essa infuse la vita. Era il Golem, forza bruta priva di bocca, perché il Verbo appartiene esclusivamente agli uomini. Quella specie di bomba atomica impressionò gli antisemiti, ma il MaHaRaL disse anche che da un giorno all´altro, senza preavviso, avrebbe potuto ribellarsi contro i suoi stessi creatori.
Il mostro d´argilla garantì la sicurezza della città ebraica, dove riportò la pace e il benessere. In seguito, però, il Golem cessò di avere un´utilità pratica. Lo si impiegò per mansioni impegnative e compiti umili. I bambini iniziarono a deriderlo. Lo si insultò. Del resto, non era un estraneo? Un giorno, come aveva previsto il MaHaRaL, il Golem si ribellò e distrusse tutto ciò che incontrò sul suo cammino. Il suo creatore, il gran rabbino Loew, fu avvisato immediatamente e dovette togliere la vita alla sua creatura: il Golem tornò a essere fango. Gli abitanti della città ebraica, pieni di rimorso, trasportarono il fango nel solaio della Sinagoga Vecchia-Nuova, la più vecchia d´Europa.
Fu per ridar vita a quel mucchio di argilla che il nazista Heydrich costituì addirittura un commando, denominato “Commando Golem”. Suo compito era quello di rintracciare gli ultimi officianti della sinagoga e, alla bisogna, torturarli per ottenere le formule necessarie a farlo tornare in vita.
Secondo i praghesi che nel weekend visitano il quartiere con le loro famiglie, il Commando sarebbe riuscito a recuperare le informazioni desiderate. Ma - mi spiega rab Haïm, custode della sinagoga - “poiché non riuscì a rintracciare anche la melodia che accompagnava le parole pronunciate da MaHaRaL”, di fatto il Commando non riuscì a esaudire il sogno di Hitler.
Con mia grande sorpresa, Arno Parik, il curatore del Museo ebraico di Praga, cita le parole di David Gans, che assistette al prodigio ed è la voce narrante del mio libro: «Nessuno, salvo MaHaRaL, fu mai puro a sufficienza per conoscere questo segreto della Cabala».
MaHaRaL, il gran rabbino Loew, illustre cabalista, era nato nel 1512 a Worms sul Reno e ed era arrivato a Praga in età avanzata, su richiesta della comunità ebraica e dell´imperatore romano germanico Rodolfo II. Rimase a svolgere il suo incarico di rabbino fino alla sua morte, sopravvenuta nel 1609, all´età di 97 anni (…).
Per me, che sono nato a Varsavia, è stato un avvenimento raro camminare lungo le strade nelle quali il Golem si era animato. Seguendo le tracce e i passi del MaHaRaL, ho esaudito il sogno della mia infanzia, privilegio di pochi. Ma ho scoperto con una certa sorpresa che l´antico quartiere di Praga è rimasto intatto (…). Ne sono rimasto sbalordito: la mia città, la città ebraica di Varsavia, è stata interamente distrutta. Perché i nazisti hanno risparmiato Praga? Per paura di MaHaRaL e del Golem? Goethe stesso aveva visitato la Sinagoga Vecchia-Nuova prima di scrivere il suo Apprendista stregone. Il Golem di Gustav Meyrink (1915) è stato uno dei primi best-seller della letteratura mondiale, letto da centinaia di migliaia di tedeschi. Del resto, il fascino che gli ebrei esercitavano su Heydrich era tale che egli si era fatto preparare un attestato dalla Commissione di valutazione razziale a riprova della sua origine tedesca e della purezza del suo sangue. Scrissero che il suo sangue non conteneva “né sangue di nero né sangue di giudeo”. Portò quel documento sempre con sé, appuntato sul petto, e così fu ritrovato dopo essere stato ucciso il 4 giugno 1942 dalla resistenza ceca. Nondimeno, prima di quel momento ebbe tutto il tempo necessario a presentare a Hitler il suo progetto, consistente nel fare del quartiere di Josefov a Praga il “museo esotico di una razza estinta”.
Considerato che era pericoloso toccare la Praga ebraica a causa del MaHaRaL, demiurgo del Golem, perché non trasformarla - alla stregua di un Jurassic Park - in un luogo nel quale osservare le tracce di un popolo malvagio, cancellato per sempre dalla faccia della Terra? (…).
Al numero uno di via Staré Školy, in un bell´edificio in stile Art Nouveau dell´ex quartiere ebraico di Praga, si trova il Museo ebraico. Il suo storico e curatore, Arno Parik, mi racconta che “sotto il controllo nazista, quaranta dipendenti lavorarono dodici ore al giorno per ricostruire un altro museo nello stesso posto del nostro, chiuso nel 1939, inaugurato infine il 3 agosto 1942. Sui cataloghi classificarono oltre duecentomila reperti”.
La prima esposizione che organizzarono, nella sinagoga detta Alta, riguardò i testi ebraici e i manoscritti che i nazisti avevano fatto venire da tutta Europa. A quell´epoca vivevano a Praga circa centoventimila ebrei. Oggi sono a malapena mille e settecento. Il loro quartiere non è cambiato, presenta ancora i suoi “angolini oscuri, passaggi segreti, finestre cieche, cortili sudici, brasserie rumorose, alberghi sinistri”, come scrive Kafka. Anche quel quartiere si è salvato grazie alla paura che incuteva e incute ancora il cabalista di Praga?
All´ombra del Klaus, la scuola di studi di MaHaRaL, scopro il vecchio cimitero ebraico. Migliaia di tombe - oltre dodicimila, si dice - alcune delle quali vecchie di parecchi secoli, si sovrappongono e si puntellano a vicenda per non crollare. Nell´imponente basamento di pietra sotto il quale riposano il gran rabbino Loew e sua moglie Perl, il tempo ha aperto numerose crepe, dentro le quali - come in quelle del Muro del Pianto - i pellegrini infilano i loro fogliettini scritti, contenenti i loro messaggi.
Uscendo dal cimitero mi imbatto in un edificio sbilenco di mattoni scuri a due piani. Come indica una targa fissata sull´architrave della porta d´ingresso, è lì dentro che nel 1664 fu fondata la Confraternita dell´Ultimo Dovere (Hevrah Kadisha). Questa confraternita, formata da volontari, aveva l´obbligo di servire senza distinzione alcuna tutti i membri della comunità e di prendere a carico i più bisognosi, per esempio i malati (…).
Non mi sarebbe piaciuto lasciare Praga senza aver rivisto il MaHaRaL (…). Per sbaglio ho dato le spalle alla statua del gran rabbino Loew e mi sono ritrovato davanti alla casa di Kafka, al numero 2b della via Cihelná. Nulla mi è parso cambiato, a esclusione, forse, al primo piano, di un bar, il Café Franz Kafka, beninteso, e all´ingresso dello stabile, di una botteguccia nella quale si vendono penne con l´effigie dello scrittore e piccole statuine in terracotta del Golem. All´interno una coppia di anziani era indecisa se acquistare una penna o una statuina. Alla fine i due hanno scelto di acquistare venti Golem in un colpo solo, “per regalarli”, ha spiegato l´uomo dai capelli bianchi in un inglese dal forte accento tedesco. Poi, girandosi e reggendo un piccolo Golem in mano, mi ha detto: «Lo terrò come portafortuna personale».
Ho ritenuto che in fondo non avesse torto e ne ho acquistati alcuni anch´io.
Perché gli uomini uccidono le donne
di Michela Marzano
La Repubblica 14.7.10
La violenza non è solo di pazzi, mostri, malati E poco importa il contesto sociale Spesso sono uomini che non accettano l´autonomia femminile
Molti di questi delitti passionali sono il sintomo del “declino dell´impero patriarcale”, l´unico modo per sventare la minaccia della perdita
Si continua a chiamarli delitti passionali. Perché il movente sarebbe l´amore. Quello che non tollera incertezze e faglie. Quello che è esclusivo ed unico. Quello che spinge l´assassino ad uccidere la moglie o la compagna proprio perché la ama. Come dice Don José nell´opera di Bizet prima di uccidere l´amante: «Sono io che ho ucciso la mia amata Carmen». Ma cosa resta dell´amore quando la vittima non è altro che un oggetto di possesso e di gelosia? Che ruolo occupa la donna all´interno di una relazione malata e ossessiva che la priva di ogni autonomia e libertà?
Per secoli, il “dispotismo domestico”, come lo chiamava nel XIX secolo il filosofo inglese John Stuart Mill, è stato giustificato nel nome della superiorità maschile. Dotate di una natura irrazionale, “uterina”, e utili solo - o principalmente - alla procreazione e alla gestione della vita domestica, le donne dovevano accettare quello che gli uomini decidevano per loro (e per il loro bene) e sottomettersi al volere del pater familias. Sprovviste di autonomia morale, erano costrette ad incarnare tutta una serie di “virtù femminili” come l´obbedienza, il silenzio, la fedeltà. Caste e pure, dovevano preservarsi per il legittimo sposo. Fino alla rinuncia definitiva. Al disinteresse, in sostanza, per il proprio destino. A meno di non accettare la messa al bando dalla società. Essere considerate delle donne di malaffare. E, in casi estremi, subire la morte come punizione.
Le battaglie femministe del secolo scorso avrebbero dovuto far uscire le donne da questa terribile impasse e sbriciolare definitivamente la divisione tra “donne per bene” e “donne di malaffare”. In nome della parità uomo/donna, le donne hanno lottato duramente per rivendicare la possibilità di essere al tempo stesso mogli, madri e amanti. Come diceva uno slogan del 1968: “Non più puttane, non più madonne, ma solo donne!”. Ma i rapporti tra gli uomini e le donne sono veramente cambiati? Perché i delitti passionali continuano ad essere considerati dei “delitti a parte”? Come è possibile che le violenze contro le donne aumentino e siano ormai trasversali a tutti gli ambiti sociali?
Quanto più la donna cerca di affermarsi come uguale in dignità, valore e diritti all´uomo, tanto più l´uomo reagisce in modo violento. La paura di perdere anche solo alcune briciole di potere lo rende volgare, aggressivo, violento. Grazie ad alcune inchieste sociologiche, oggi sappiamo che la violenza contro le donne non è più solo l´unico modo in cui può esprimersi un pazzo, un mostro, un malato; un uomo che proviene necessariamente da un milieu sociale povero e incolto. L´uomo violento può essere di buona famiglia e avere un buon livello di istruzione. Poco importa il lavoro che fa o la posizione sociale che occupa. Si tratta di uomini che non accettano l´autonomia femminile e che, spesso per debolezza, vogliono controllare la donna e sottometterla al proprio volere. Talvolta sono insicuri e hanno poca fiducia in se stessi, ma, invece di cercare di capire cosa esattamente non vada bene nella propria vita, accusano le donne e le considerano responsabili dei propri fallimenti. Progressivamente, trasformano la vita della donna in un incubo. E, quando la donna cerca di rifarsi la vita con un altro, la cercano, la minacciano, la picchiano, talvolta l´uccidono.
Paradossalmente, molti di questi delitti passionali non sono altro che il sintomo del “declino dell´impero patriarcale”. Come se la violenza fosse l´unico modo per sventare la minaccia della perdita. Per continuare a mantenere un controllo sulla donna. Per ridurla a mero oggetto di possesso. Ma quando la persona che si ama non è altro che un oggetto, non solo il mondo relazionale diventa un inferno, ma anche l´amore si dissolve e sparisce. Certo, quando si ama, si dipende in parte dall´altra persona. Ma la dipendenza non esclude mai l´autonomia. Al contrario, talvolta è proprio quando si è consapevoli del valore che ha per se stessi un´altra persona che si può capire meglio chi si è e ciò che si vuole. Come scrive Hannah Arendt in una lettera al marito, l´amore permette di rendersi conto che, da soli, si è profondamente incompleti e che è solo quando si è accanto ad un´altra persona che si ha la forza di esplorare zone sconosciute del proprio essere. Ma, per amare, bisogna anche essere pronti a rinunciare a qualcosa. L´altro non è a nostra completa disposizione. L´altro fa resistenza di fronte al nostro tentativo di trattarlo come una semplice “cosa”. È tutto questo che dimenticano, non sanno, o non vogliono sapere gli uomini che uccidono per amore. E che pensano di salvaguardare la propria virilità negando all´altro la possibilità di esistere.
L’Aquila ci parla di noi
Guido Crainz
La Repubblica 24.06.2010
Guido Crainz,
L´Aquila, con il disagio e la protesta dei suoi cittadini, ci parla in molti modi dell´Italia. Ci ripropone la sensazione che sempre avvertiamo dopo la catastrofe, materiale e culturale, di un terremoto: la sensazione cioè che ogni volta sia la nazione nel suo insieme a doversi rialzare, a dover ritrovare ragioni e speranze per il proprio futuro. Lo avvertivo nel 1976 friulano, nei luoghi in cui sono cresciuto, e lo avverto ora nell´ Abruzzo in cui insegno da molti anni. L´Aquila ci parla anche di un paese incapace di far tesoro delle esperienze del passato. E ci costringe a interrogarci sul nostro presente: è la storia d´Italia che ci viene incontro quando ricordiamo la valanga d´acqua del Vajont, il 1968 del Belice, il 1976 del Friuli, il 1980 della Campania o l´Abruzzo di oggi.
Si pensi al Vajont del 1963, che mostrava all´Italia del “miracolo economico” la tenace sopravvivenza di una povertà arcaica, di donne vestite di nero, di gerle che portavano in salvo i residui di una miseria antica. E si pensi all´inadeguato esito del processo ai responsabili, frutto di una giustizia ancora debole e incerta di fronte ai potenti. La prima fotografia scattata a L´Aquila che ricordo d´aver visto è della fine degli anni Sessanta, la pubblicarono tutti i giornali: ritraeva le donne del Vajont scese in Abruzzo per assistere a quel processo.
Vi è poi il 1968 del Belice, che è anche l´anno di Avola, nella stessa Sicilia: un´Italia in cui i braccianti potevano ancora morire sotto il piombo della polizia battendosi per diritti elementari. In quell´anno una giovane generazione iniziò a chiedere l´”impossibile”: si dimostrò impossibile anche dare risposte adeguate a quei diritti e a quei bisogni. E il Belice divenne il simbolo di un amarissimo, doloroso e umiliante fallimento nazionale.
Si pensi anche al 1976 del Friuli, molto evocato ma poco conosciuto nella sua articolata realtà. Ci racconta molte cose, quel Friuli. Ci parla in primo luogo del clima del tempo, di una “democrazia dal basso” che si sviluppò prepotentemente in un Paese segnato da una grande sensibilità civile e da una forte speranza di cambiamento, presto delusa. Ci parla del concreto operare di persone e di istituzioni, di legislatori nazionali e di amministratori locali, a contatto diretto – non senza conflitti, talora – con gli amministrati, con i paesi e le culture ferite dal trauma. E ci parla anche del prezioso ruolo svolto allora dalla Chiesa friulana, dai suoi sacerdoti e dal suo vescovo. Un momento irripetibile, forse, e quattro anni dopo l´Irpinia sembrò collocarsi in un´altra epoca. Illuminò di luce cruda i mutamenti in corso sia nel Paese che nel Palazzo. In un primo momento i ruoli sembrarono quasi rovesciarsi: poche ore dopo il sisma è Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, a irrompere dal video nelle case degli italiani e a denunciare i rischi di un “altro Belice”. A chiamare in causa responsabilità di singoli e di parti politiche. Quelle immagini televisive ci appaiono oggi la nobile e terribile testimonianza di un´impotenza. A nulla varrà quell´irrituale appello, che attirò al Presidente anche veementi critiche. In Irpinia fu molto peggio che nel Belice. La ricostruzione delle aree colpite – e di quelle non colpite, poiché l´area si dilatò a dismisura e lo sperpero si protrasse nel nulla – moltiplicò inefficienze, corruzione, sprechi, dilapidazioni di denaro pubblico. Alimentò o consolidò intrecci perversi fra poteri legali e illegali. E la grande solidarietà per l´Irpinia fu l´ultimo grande momento di mobilitazione nazionale per il Sud, prima dell´innescarsi di derive e umori che la Lega porterà agli estremi: nei primi anni Ottanta deliranti scritte antimeridionali inizieranno a comparire sui cavalcavia veneti o sui muri lombardi.
Che Paese ci ha mostrato, infine, il dramma di oggi, il dramma dell´Abruzzo? In primo luogo un Paese irresponsabilmente smemorato: il decisionismo di vertice e l´esautorazione della popolazione che sono state imposte a L´Aquila sono l´esatto contrario di quell´intreccio fra partecipazione e decentramento che fu la chiave vera della rinascita friulana (e contraddicono anche la positiva esperienza delle Marche e dell´Umbria, nel 1997). Hanno sottratto alla discussione e alla decisione della comunità colpita e dell´intero Paese non solo le misure della primissima fase ma anche quelle riguardanti il futuro della città, ancora circondato da un´incertezza e da un´opacità che alimentano la sfiducia, se non lo sconforto. Negli ultimi anni, inoltre, l´azione generale della Protezione civile ha assunto progressivamente al proprio interno il perverso meccanismo che è stato alla base del disastro campano: l´estensione delle regole dell´emergenza – con l´indebolimento di controlli e vincoli – ad eventi che non hanno alcun rapporto con essa (con le conseguenze rivelate dalle intercettazioni telefoniche, che il governo vuole appunto abolire). La berlusconiana “politica del fare”, presunto simbolo di innovazione, ha così riproposto in qualche modo i contorni più negativi della politica degli anni ottanta. Amplificati dalle promesse mirabolanti e dalle realtà virtuali fatte intravedere, favoriti anche da troppi “intervalli di silenzio” dell´informazione (di quella televisiva in modo particolare, con rarissime eccezioni).
Anche il Paese, infine, dovrebbe interrogarsi meglio su se stesso. Una nazione che non sente il bisogno di essere realmente e assiduamente vicina a una propria parte ferita rischia di smarrire, e forse sta già smarrendo, la propria ragion d´essere più profonda.
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