Luigi Pintor, un comunista irriconciliato

7 Agosto 2010
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Rossana Rossanda

Gli omaggi resi a Luigi Pintor giornalista e le lacrime sparse su di lui come figura morale sono stati autentici, un paio di generazioni hanno pianto lui e se stesse. Ma è come se l’emozione permettesse di non sottolineare che era stato comunista, parola oggi impronunciabile, se non criminale, ingannevole da sempre. Ma non si capisce Luigi se non si tiene a mente che è stato un comunista del PCI e poi del «manifesto». Se i suoi ultimi accenti sono stati amari è perché il presente andava per altre strade, segno della fatale sordità umana.
Era poco più che un ragazzo quando raccoglieva il messaggio che gli lasciava il fratello Giaime nell’autunno del 1943. Nella lettera, Giaime prendeva commiato dallo spazio che si era dato - il fascino dello scavare nella cultura e letteratura della Germania mentre precipitava nella tragedia nazista. La guerra tagliava i tempi personali; Giaime indossava la veste del combattente con tanta decisione quanto poca enfasi, bisognava smettere gli indugi brindisini, raggiungere le formazioni partigiane del Centro nord. Si mise in strada e saltò su una mina tedesca. Luigi ne avrebbe cercato il corpo nel dopoguerra. Si gettò intanto nella resistenza romana, e ne sarebbe scampato vivo per quella casualità che decide di molte umane cose.
Era naturale essere nel PCI quando la guerra finì, era la sola grande forza popolare che capiva quel che il fascismo ci aveva insegnato, che senza una forza socialista anticapitalista la stessa democrazia poco voleva e valeva. È naturale lavorare a «l’Unità»: la sua scrittura prodigiosa e asciutta ne faceva naturalmente un editorialista e notista politico, inchiodando con eleganza la debolezza dell’avversario e dando le parole giuste ai subalterni in via di diventare classe generale, portatori di speranza e di orgoglio. Luigi avrebbe lasciato il segno anche nella televisione appena si aprì all’opposizione, cosa che non avvenne (a proposito di consociativismo della Prima Repubblica) fino alla campagna elettorale del 1963: pareva nato per la domanda o l’obiezione fulminante quando ancora gli altri si impappinavano davanti al piccolo schermo. Chi blatera oggi del PCI come una selezione di burocrati al servizio del Pcus e masse al servizio dei capi non ha idea di che cosa sia stato essere comunista in quegli anni.
Chi non conosceva Pintor? Anche io, che lavoravo a Milano. Ma una sera forse Reichlin mi portò nella sua casa di via Tazzoli, in Prati. Saranno stati i secondi Anni Cinquanta. C’era molta gente, Marina dagli occhi brucianti, il gatto Matteo, una rosa rossa sul pianoforte. Quando Luigi suonò - non sapevo quel che la musica era per lui - gli dissi d’impeto: - Se sapessi suonare così non farei politica. Mi guardò malissimo.
Erano anni di grandi passaggi. Lo sbaraccamento dell’industria di guerra, le lotte per il lavoro, le schedature nelle fabbriche, la batosta alla Fiat andavano verso la fine, come le occupazioni contadine al Sud: l’economia riprendeva e con essa un nuovo movimento operaio. L’Italia si era industrializzata, la composizione sociale mutava, le città crescevano tumultuosamente. Il popolo meridionale sul quale il PCI aveva avuto suoi intellettuali e le sue masse cedeva il passo, dilagavano nuove idee e costumi. E contro ogni previsione nel migrare a Torino, Milano, Genova i contadini si facevano subito proletariato.
Il PCI ricominciava a crescere. Il 1956 era bene o male digerito - Luigi dovette essere di quelli che incassarono mettendolo in conto alla crudeltà dell’esistente - anzi l’VIII Congresso aveva aperto alcune porte. L’estate del 1960 sarebbe stata il crinale dopo il quale la Democrazia cristiana non avrebbe potuto più governare da sola. Il centrismo vacillava, i socialisti avevano iniziato una svolta che li rendeva compatibili con un governo moderato disposto a qualche apertura. E come l’Italia mutava la scena mondiale, la nuova frontiera di Kennedy - ma il Vietnam e Berlino restavano bollenti - le decolonizzazioni erano precipitose quanto dense di nuovi conflitti, la coesistenza pacifica prendeva la sua zigzagante strada e l’Urss e la Cina si dividevano. Con Giovanni XXIII cadeva il bastione conservatore della chiesa, non eravamo più scomunicati e l’ecumene parlava un linguaggio sorprendente.
Fu un periodo entusiasmante. Anche il PCI era spiazzato. Era sempre stato sulla difensiva, ora avrebbe potuto uscirne. Ma come leggeva l’`ora’? Nei primi anni Sessanta qualcuno nel gruppo dirigente, Alicata, Amendola - in preparazione del X Congresso - si chiesero se l’avere imposto la pace al capitalismo già presunto naturale portatore di guerra (Jaurès) non ne cambiasse la natura, se non si dovesse prendere atto di nuovi diversi capitalismi che forse depauperavano la lotta di classe - cominciava un uso disinvolto di Gramsci e dello `storicismo’. Si irrigidirono i conservatori ma si delineò anche un’opposizione di sinistra interna. Il capitalismo restava tale, anzi era l’ora di riscoprirlo dietro la questione nazionale, e doveva cessare l’idea che fosse incapace di crescita per cui toccava a noi riprendere le bandiere della democrazia lasciate cadere dalla borghesia; il capitale italiano prendeva la testa di alcune produzioni, innovava nel processo, nel prodotto, nelle relazioni industriali. Lo aveva capito il V Congresso della Cgil. Vi sbattevamo il muso a Torino e a Milano. Una linea di classe, aggiornata e intelligente, andava ripresa dopo anni di democrazia in generale. Il primo scontro avvenne a un convegno del Gramsci nel 1962.
Ne veniva anche un diverso giudizio sull’apertura dei Dc ai socialisti: li avrebbero ingoiati, sospettavamo noi, no era la sinistra che sfondava, obiettavano amendoliani e centro. Bisognava radicalizzare le lotte, dicevamo noi, l’occhio alle magliette del 1960 e al Natale degli elettromeccanici; no, la vecchia linea obiettava il gruppo dirigente. La differenza di sensibilità fra il partito delle grandi zone industriali e quello del Mezzogiorno, si articolava. Ma il sospetto che si andasse a uno sbocco compromissorio univa le sinistre di sud e nord. Questa è la discussione che segna la generazione mia e di Pintor. Il 1956 era stato in qualche modo fuori delle nostre responsabilità, mentre ora si trattava di noi, quel che il PCI voleva e doveva essere, qui in Italia. Tornava forse all’ordine del giorno la `rivoluzione italiana’, come aveva accennato Togliatti? E quale rivoluzione?
Su questo si forma una sinistra del PCI. La divisione ha le sue icone: Amendola da un lato e Ingrao dall’altro, il primo spregiudicato nel servirsi di regole e poteri dell’apparato, il secondo corretto fino allo scrupolo nei rapporti interni. Il partito non era attrezzato a una discussione. Dalla fine degli anni ‘50 al 1964 la divisione corre sotto traccia.
Nel 1964 la morte di Togliatti privò il partito del solo in grado di mediarla, come allora si diceva, `spostandone il terreno in avanti’. Togliatti era stato appena sepolto che Amendola uscì con la proposta di unificazione del PCI con il Psi, chiudere la parentesi aperta dal Congresso di Livorno. Ingrao, Trentin ed io opponemmo la proposta di una unità trasversale fra le sinistre di ambedue i partiti e sindacati. Centro e destra si compattarono per mandar la nostra palla in corner, ma Pintor, Natoli e Occhetto, allora alla testa d’una Fgci scalpitante, ci votarono contro. Era il maggio 1965 e tutto fu silenziato.
Questa storia, che attraversò tutti gli anni `60, non è stata fatta e l’XI Congresso la chiuse ruvidamente: Ingrao pose la questione del dissenso e, nella formula non evidente del modello di sviluppo, quella dell’alternativa. Fu battuto e seguì lo sterminio dei sospettati di `ingraismo’: io ero già stata sospesa dalla commissione culturale, Magri veniva messo fuori dall’apparato, Castellina separata dai suoi incarichi, Natoli isolato a Roma e Pintor, che non aveva taciuto a «l’Unità» fu mandato al confino in Sardegna. Lo stesso accadde nelle federazioni. Si può dire senza errore che il PCI individuò il futuro «manifesto» prima che si riconoscesse da sé.
Si cominciò allora a discutere fra noi con qualche frequenza, noi gli epurati veri e propri, e Ingrao e Trentin e Reichlin e Luporini, e alcune federazioni Genova, Torino, Venezia, Roma e, con Luigi, Cagliari. Si formava una posizione diffusa mentre precipitavano gli anni Sessanta. Il 1968 l’avrebbe fatta precipitare: le agitazioni studentesche erano cominciate dal 1967 a Venezia e a Trento, dilagarono alla fine dell’anno a Torino, e poi in tutti gli altri centri tra occupazioni e manifestazioni di strada. Nel febbraio 1968 ci fu anche qualche prima grande lotta operaia (Marzotto). Ardeva il Vietnam, si dubitava della pacifica coesistenza, dalla rivoluzione culturale cinese venivano eco sorprendenti assieme libertarie e rigide, antigerarchiche e asperrime - società e partito erano in fibrillazione. Il 1968 cominciò con un scontro nella direzione del partito sulle pensioni e gli studenti, ad aprile Dubcek inaugurava il nuovo corso di Praga e il solo determinato a sostenerla era Luigi Longo, poi il maggio francese dilagò - succedeva di tutto. E ci si divideva su tutto, potevamo dividerci senza andare a una spaccatura? Ancora una volta nella sessione del Comitato centrale di luglio 1968 vinse la prudenza e ad agosto, dopo l’invasione di Praga, Longo la definì un «tragico errore». Ma quale errore, Pintor e Natoli dissero no, non tragico errore, ma logica conseguenza di quel che era diventata l’Unione Sovietica. Fu, credo, il primo voto ruvido contro. Nell’autunno si prepararono le tesi del XII Congresso e gli schieramenti si definirono: Pintor, Natoli ed io, e Caprara e Milani, votarono contro e molte federazioni si divisero.
Al XII congresso arrivavo io sola con diritto di voto, Natoli e Pintor con diritto di parola come membri del Comitato centrale uscente. Ci dividemmo gli interventi: situazione internazionale, partito, movimento. Parlammo fra grandi applausi al mattino presto, scandalo e fragore. Proponemmo e poi depotenziammo poco gloriosamente una mozione. Fummo riconfermati nel Comitato centrale solo noi tre ma del tutto privi di incarichi e praticamente di parola.
Fu allora che decidemmo di fare un mensile. Luigi Pintor, Lucio Magri, Aldo Natoli, Valentino Parlato, Luciana Castellina, Ninetta Zandegiacomi ed io. Si sarebbe visto se osavano cacciarci. No, mi assicurò all’inizio Berlinguer, sì vi cacceranno, previde Ingrao. Molti che ci avevano incoraggiato ci lasciarono. E, più coerenti, coloro che il mensile non approvavano, lo stesso Ingrao, Trentin, Reichlin, Garavini, diversi intellettuali. Luigi Pintor aprì il primo numero del «manifesto» con un editoriale presago: Un dialogo senza avvenire. Quello con la Dc.
Il PCI chiese di sospendere la rivista, in discussioni durate quattro mesi e due Comitati centrali. Al secondo consegnò la questione alle federazioni le quali se ne appassionarono fin troppo. Il gruppo dirigente, contrariato, indisse un terzo Comitato centrale che ci radiò. Dopo Cucchi e Magnani, poi riammessi, eravamo i primi componenti del Comitato centrale espulsi. Era il 23 o 24 novembre del 1969, toccava in pieno l’autunno caldo.
Eravamo fuori. La speranza di inserire un polo critico all’interno del PCI era fallita. Molto falliva con questo. Formati in una grande organizzazione non prendevamo con leggerezza l’averla perduta: c’era un grande bisogno di cambiamento nel paese, e nella sua parte più vitale, le masse studentesche e quelle operaie, che parlavano in assemblee trascinanti. Quella che avevamo chiamato «Maturità del comunismo» produceva delle soggettività di cambiamento in tutti i settori, dai soldati ai giornalisti ai medici agli insegnanti. Ma apriva un conflitto, grande, e non lo avrebbe sostenuto senza organizzarsi, senza darsi strutture solide. In fondo avevamo sperato che una parte consistente del PCI sarebbe stata una di queste. Radiati non demmo la consegna di seguirci nella speranza che quel che avevamo seminato all’interno potesse esprimersi ancora; errore, tutto il PCI si rinchiuse, e gli `ingraiani’ ci rimproverarono di averli messi, con la nostra forzatura, in difficoltà.
Il movimento comprava la rivista - mai un mensile aveva avuto il nostro successo, decine di migliaia di copie - ci leggeva ma dubitava dei quarantenni comunisti che eravamo, considerando il PCI e la Cgil come i primi nemici, quelli che tradivano il 1968. Noi ne eravamo vittime. Stimate ma troppo ragionanti, troppo poco antistituzionali, troppo diversi. Non so se il giudizio su di noi non contenesse delle verità, ma certo nessun altro dei gruppi nati dal 1968 riuscì ad esprimerlo e organizzarlo. Perché? La vera domanda, cui non rispondono gli ex sessantottini pentiti, che sono un esercito, è perché nessuno vi sia riuscito, restando, nella migliore delle ipotesi, una intelligente minoranza. Come se chi si muoveva con parole d’ordine e volantini fin estremi, e in forme sovvertitrici del linguaggio e dei metodi delle sinistre, affidasse contraddittoriamente ancora a loro la rappresentanza. Negli anni successivi il PCI capitalizzò i voti cresciuti sul 1968 che non lo amava affatto.
Se riandando a Luigi Pintor torna a galla tutta la nostra vicenda, è perché il segno suo e del «manifesto», è di non essersi contentato mai di essere minoritario, diversamente da altri gruppi, e diversamente da altri gruppi di non essersi mai estinto. Non riuscimmo ad avere la dimensione pari alle nostre ambizioni. Non ci premeva di essere noi il nuovo grande partito, ci premeva di fare in modo che si formasse un’organizzazione all’altezza della crisi della sinistra storica e delle dimensioni del movimento. E che unisse quella radicalità all’esperienza migliore dei comunisti, rivisitata, depurata dal politicismo. Non vi riuscimmo mai, ma non ci spegnemmo mai. Come una ostinata candela.
Quello fu l’obiettivo nostro e per diversi anni senza differenze. Lavoravamo assieme ogni giorno alla rivista, scrivendo e discutendo tutto quel che veniva steso. La sede a Piazza del Grillo era tutto un via vai. Fu un collettivo entusiasmante. Nell’estate del 1970 stendemmo, specie Natoli, Pintor, Magri ed io le Tesi sul comunismo - un comunismo che non era quello della presa del Palazzo d’Inverno. Non poche di quelle analisi risultano oggi giuste, tutte fuorché la capacità di farsi soggettività politica del disegno di cambiamento che riempiva facoltà, fabbriche e piazze. Uno solo dei gruppi del resto discusse con noi sul serio, Potere operaio, con il quale facemmo un convegno a cavallo del 1971 a Milano.
Pintor e Magri scalpitavano, occorreva un moltiplicatore. Decisero di lanciare un movimento-partito, la pressione dei compagni in periferia era forte. Qualcuno di noi - non Luigi - esitava. L’anno seguente la stessa pressione ci portò a presentarci alle elezioni del 1972. Intanto - eravamo su piazza da un anno - Pintor propose di colpo: facciamo un quotidiano. Un quotidiano? Dove avremmo trovato i soldi, la gente che scrivesse? Pareva una follia. Ma ci buttammo. Era una sfida, poi si sarebbe visto.
Il quotidiano è stato prima di tutto e specificamente lui, Luigi. Era uno strumento politico per i tempi nuovi, si sarebbe infilato agilmente nelle menti, sarebbe arrivato alle coscienze dove le organizzazioni non arrivavano. Bisognava reinventare il quotidiano, strumento che conosceva da vent’anni di pratica. Anzitutto un quotidiano povero, Pintor sapeva che «l’Unità» costava una barca di soldi. Ma era obbligatorio? No. I giornali erano una massa di carta, chiacchiere e pubblicità, manipolatori delle teste, induttori ai consumi, capaci anche di informare e di affogare nel brusio quel che c’è di importante. Noi avremmo fatto un giornale, che avrebbe detto tutta e sola la verità, intesa come verità politica, non reticente come nei giornali di partito e non affogata in mille scempiaggini come nelle testate dette indipendenti. Avremmo fatto a meno di un editore-padrone, neanche se avessimo avuto un vero partito il giornale ne sarebbe stato il bollettino. Avremmo fatto a meno della pubblicità, padrona indiretta, riportando il quotidiano al nitore di poche pagine. Un grande grafico, compagno e amico di Luigi, Giuseppe Trevisani, disegnò quattro pagine sobrie, nelle quali sarebbero state date le notizie, tutte, ma senza influenzare il lettore che consideravamo ormai adulto: i pezzi si sarebbero seguiti a nastro, come in un libro, su una colonna, con titoli spartani - un occhiello (lavoro o politica estera o lotte) e una notizia (chiara, se riguardava Nixon bisognava far seguire «presidente degli Stati Uniti», rispettando chi forse non sapeva ma nulla concedendo al populismo o agli ammiccamenti). Saremmo costati pochissimo. Saremmo stati pagati tutti come un metalmeccanico di quinto livello e senza differenze. Il regime sarebbe stato d’assemblea, la redazione avrebbe discusso di tutto con tutti, redattori e tecnici e fattorini. Niente burocrazia, autogestione. Un giornale comunista anche nel modo di essere. Bizzarramente, questo è quel che dura ancora, dopo trent’anni - un falansterio di uguali, non senza gli inconvenienti che ne seguono e sui quali sarebbe dilettevole scrivere.
«Il manifesto» uscì il 28 aprile 1971 senza l’assoluto rigore grafico di Trevisani: si mantenne la divisione fra le quattro pagine, ma ognuna ebbe un lungo sovratitolo, i titoli delle notizie si seguivano su una o due colonne. Doveva esserci ogni giorno un editoriale e presto ci fu un corsivo - terreno pintoriano per eccellenza. All’inizio vendemmo centomila copie, ma non per molte settimane. Poi scendemmo, di poco, di molto, a sbalzi. Non siamo morti mai.
Il primo «manifesto», perdipiù attento come nessuno alla politica internazionale, che allora su altri giornali aveva pochissimo spazio, incantò gli esperti, influenzò alcuni grandi giornali, attirò molti giovani ingegni che vennero a lavorare con noi per compensi irrisori, piacque ai nostri compagni che ci sostenevano e distribuirono. Dispiacque inizialmente a quella parte del movimento che avrebbe voluto non un giornale ma un foglio di controinformazione. (Quando in autunno mandai dal Cile, dov’ero stata invitata all’università di Santiago, diversi reportages e un’intervista con Allende, i calzaturieri del Brenta protestarono: che ce ne importa, parlate di noi).
Fummo il primo giornale senza padrone (e il solo rimasto su piazza). «L’Unità» ci attaccò: chi li paga? Ma noi pubblicavamo tutti i nostri miseri conti, e le sottoscrizioni, da mille a centomila lire. Non avevamo ispettori ma eravamo dovunque. Ma non è stato il moltiplicatore che speravamo. Arrivammo alle elezioni del 1972 - alcuni di noi poco persuasi, ma Luigi deciso - candidando Pietro Valpreda, eravamo un simbolo e sceglievamo il simbolo. Fra noi e il Psiup disperdemmo un milione di voti.
Il risultato elettorale colpiva il giornale e il partito. Non eravamo che un gruppo fra gli altri. Non fu molto più fruttuoso il tentativo di unificarci con il Pdup di Silvano Miniati, Vittorio Foa e Pino Ferraris, e il Movimento politico dei lavoratori di Giangiacomo Migone. Né il tentativo di presentarci alle elezioni nel 1976 con una lista comune anche con Lotta Continua - non disperdemmo i voti, ma non fu un risultato che segnasse la scena.
Non è questa la sede per seguire tutte le vicende del «manifesto», del manifesto-Pdup e infine del suo scioglimento in una pesante giornata all’Eur. Non che una riflessione non sarebbe interessante: attorno a noi si aggrovigliano tutti i problemi sui quali sarebbe andato alla sconfitta il PCI di Berlinguer, la Cgil sarebbe stata ricondotta all’ordine e il movimento sarebbe defluito o avrebbe prodotto le frange armate.
Negli anni `70 si giocarono tutti i tentativi di innovazione della tradizione comunista classica e di quella libertaria, che piacesse o no ne era una filiazione. È il decennio nel quale si riorganizza anche quella che si chiamò, un po’ approssimativamente controrivoluzione, ed era la reazione capitalistica e dei poteri a una stagione mondiale di lotte senza precedenti, una specie di assalto al cielo: lo spirito `riformatore’ degli anni `60 finiva nella crisi del sistema di Bretton Woods, dell’energia del 1973-74, nella Trilaterale, che avrebbe preluso alla controffensiva di Thatcher e Reagan. Quando Berlinguer morì, dopo il tardivo distacco dall’Urss, nei primi anni Ottanta, tutte le carte erano giocate e perdute per la sinistra moderata e quelli che avevano tentato una svolta rivoluzionaria. Gli anni ‘70 macinarono tutti.
Luigi Pintor sentì la sconfitta delle elezioni del 1972 come tutti e più di tutti. Vi aveva puntato molto. Avevamo avuto delle piazze piene e bellissime - operai, intellettuali, giovani, tutti. Ma non ci avevano votato, gli stessi che ci avevano applaudito e circondato, come se il voto dovesse andare a una lista più forte, anche se antipatica, come se tutti volessero cambiare ma pochissimi si fidassero di ricominciare. Questa contraddizione Luigi la sentì fortemente, la giudicò una specie di opportunismo degli oppressi - qualcosa che rigettava noi e le loro speranze in una marginalità. Stimata. Rispettata. Vi gettava anche il giornale, salvato sempre in extremis anche da chi non lo comprava tutti i giorni - che è il solo modo di far vivere un foglio senza padroni. Lo vendemmo fino a 50.000 lire, allora assai più di 50 euro oggi, nelle sottoscrizioni speciali. Gli italiani non ci acquistano ma preferiscono che esistiamo.
Luigi non se ne dette mai pace. Già nel 1973 mi scrisse (cfr. «il manifesto» 18.5.2003): il giornale che avrei voluto è impossibile. Non tanto per esterne avversità ma perché il movimento da cui è nato non accetta alcuna direzione, che gli è necessaria come a un’orchestra un direttore, pena non essere un’orchestra ma una somma di strumenti. Non accetta una direzione per una cultura spontaneista e poi individualista profonda, per il rifiuto di ogni delega, perché non si fida né di sé né di qualcuno fra i suoi - a lungo fu più facile affidare una direzione con riserva ai `vecchi’, che si possono amare e odiare come i genitori, piuttosto che a un fratello. Era ed è rimasto un limite irrisolto. Anzi sempre più in quanto il corso delle cose terremotava non solo l’orizzonte dei `vecchi’, ma anche quello dei giovani degli anni Sessanta e Settanta. E tuttavia quel giornale si poteva fare perché una cinquantina di quei giovani - sui quali passavano, suscitando speranze, delusioni, dubbi di fondo, gli anni ‘70 e ‘80 e’90 - restavano a farlo invece che migrare verso sponde più sicure. Luigi lo vide fin dal 1973.
Gli fu presto chiaro anche il limite del «manifesto» come partito o aggregazione, sul quale pur aveva puntato assieme a Magri e a me, e ai compagni delle periferie. Ci eravamo misurati con le elezioni e ne pagavamo il prezzo. Nel 1974 tentavamo un rilancio unificandoci con la sinistra socialista che era stata nel Psiup (si chiamava già Pdup, Partito di unità proletaria) e al Movimento politico dei lavoratori. Degli esiti ho già accennato. Luigi se ne discostò per primo, anche perché il nuovo partito si sentiva più debole del giornale, che stava su piazza con maggiore autorità, e gli rimproverava di aiutarlo senza esserne aiutato. Certo, le vicende interne, spesso penose, e i documenti spesso infiniti di un’organizzazione non erano ricevuti volentieri da un giornale che voleva parlare a un pubblico più vasto. E che era tutto figlio del «manifesto» iniziale, e quando il Pdup, dopo aver imposto la propria sigla come sottotestata, chiese di introdurvi Vittorio Foa, Pino Ferraris, Marianella Sclavi, altri - non li accolse come avrebbe dovuto. Non è difficile immaginare che si sentissero a disagio. Luigi a quel punto se n’era andato furibondo, perché gli accadeva di trovarsi come all’«Unità» - e se all’«Unità» aveva dovuto sopportare un grande partito, le pretese o bisogni di un piccolo partito non gli andavano proprio giù. Vittorio Foa e Pino Ferraris lasciarono, Foa accusandoci di essere una frazione manifestista (non avevamo pubblicato un enorme documento di Capanna). Ero direttore io, allora, e ne ricordo la presenza, diffidente e polemica, come un po’ ostile ma vivificante: trovavo Vittorio Foa ogni mattina acuminato, pronto ad accusarci di moderatismo. Ma le sue sferzate lasciavano il segno. Pochi anni dopo avrebbe cambiato opinione. Ma le sinistre, radicali o no, non sanno stare decentemente assieme, specie quando le provenienze sono diverse e gli obiettivi confusi. Luigi sarebbe rientrato dopo due anni, quando il giornale si sarebbe separato dal partito, riprendendo la sua testatina di «quotidiano comunista».
Non si possono seguire qui le traversie seguenti - furono anni tremendi. Qualche distratto professore assegna ogni tanto agli studenti una tesi sulle vicende del «manifesto» e del suo quotidiano, nelle quali in genere i poveretti si perdono: il susseguirsi dei tamburini è indecifrabile. Né Luigi, né Valentino, né io, che fra i vecchi venivamo a sostituirci di volta in volta, riusciamo a tenerle in mente - né ce ne importa, era un servizio. Fra i più giovani, comprensibilmente, non sarebbe più stato così.
Nella turbolenza degli ultimi anni Settanta e degli Ottanta «il manifesto» si destreggiò come un collettivo politico, libero ma collettivo. Nei secondi anni Settanta vide con lucidità quel che accadeva, commentò la linea dell’Eur della Cgil per quel che era, un arretramento. Nel 1978 sbagliò pensando sulle prime che il sequestro di Moro fosse opera di congegni potenti, ma si corresse presto, vide la miseria del governo, sostenne - e credo che lo farebbe ancora - «né con le Br né con lo Stato», fu per la trattativa. Negli anni Ottanta seguì con grande pena e fatica il declinare delle lotte, più che non capisse il mutamento dell’organizzazione e della tecnologia del capitale: un quotidiano non è un laboratorio, e l’urgenza di uscire non lo aiuta a guardare a medio termine. Ma diede voce alla nuova sensibilità ambientale o al sorgere del secondo femminismo - grazie alle più giovani, le vecchie emancipate come Luciana Castellina e me arrancando in ritardo. Ma furono anni difficili, le vendite scesero, il giornale faceva fatica e la mascherava cambiando repentinamente di grafica, come per catturare con l’espediente della messa in pagina le idee che gli sfuggivano. Le pagine crebbero e così i titoli `gridati’ per paura di non essere sentiti. Luigi seguiva, aiutava, impediva il peggio, convinto in cuor suo che nulla contasse granché più che la prima pagina e un editoriale azzeccato. Con il 1989 la differenza fra le generazioni divenne più esplicita. I vecchi parteciparono da fuori alle vicende del PCI: attaccarono Occhetto, sperarono nella riunione di Arco, tennero per una separazione che si rivelò insufficiente - dei giovani qualcuno se ne andò o di qua o di là, i più sentirono quella come una vicenda di un’altra stagione. Negli anni Novanta scelsero quasi senza dirselo di essere uno spazio della sinistra radicale e ragionante che si garantiva reciprocamente senza confronto - come ebbe a dire uno degli ex ragazzi più acuti, un libero mercatino dove ogni artigiano portava il meglio della sua produzione. Qualcuno di noi non lo sopportò. Luigi, disincantato e saggio, si contentò di tener d’occhio la prima pagina e, assieme a Valentino, `la macchina’: che il giornale uscisse, che non venisse colto da un infarto. Dava ogni tanto un colpo di timone e scriveva. E il suo editoriale arrivava sempre a segno. Lui che si è dato molte colpe nei confronti dei suoi figli, per i ragazzi del «manifesto» è stato un padre buono.
Riflettendo su di lui colpisce la lucidità nel sentire quanto fossimo al di sotto, come giornale e movimento, di una soglia decisiva. Luigi non credette mai che il movimento si bastasse da solo, fu fra i meno inclini a suggestioni minoritarie. Gli interessarono le culture giovanili come rotture di questo o quel paradigma più che non gli interessassero i gruppi e i loro leaders. Non discusse la mia decisione di appoggiare la candidatura di Antonio Negri in galera, ma non gli interessò mai il professore, e viceversa. Non era disprezzo, se mai impazienza fra chi gli pareva inseguire obiettivi insufficienti, misurati più sul proprio metro che sull’avanzare degli avversari. Del mio tentativo di capire gli estremismi, come dell’ostinazione di Magri nel cercare un varco nell’area che continuava a gravitare attorno al PCI, pensava che fossero inutili. In politica gli errori si pagano. Noi e gli altri.
Tutto era assai meno di quel che sarebbe stato necessario. Quando il PCI lo invitò a presentarsi candidato della Sinistra indipendente alla Camera, sperò che intendesse cambiare strada. Fu un errore che commisero anche altri. Fece una campagna elettorale straordinaria, manifestista, in Toscana, e alla Camera fu acerbamente solo. Aumentava in lui la percezione che la sinistra era in caduta libera, e questo era anche la caduta d’una cultura e d’una morale della persona, cui non vedeva opporsi che il vuoto.
Negli ultimi anni, e specie nei suoi libri, fu pessimista, quasi nichilista, ma sul giornale non cessò mai di rilanciare. Su questa rivista proponeva ancora nel maggio 2000 che si incontrassero tutte le forze critiche rimaste sul terreno. Non funzionò neanche questo. Continuò a scrivere senza cedere d’un pollice, e senza illudersi finché la morte lo trascinò via in tre settimane. Pareva finita la guerra americana in Iraq, contro la quale si pronunciò quasi ogni giorno e nell’ultimissimo editoriale, proprio prima di conoscere la propria sorte, scrisse uno dei suoi pezzi più severi. Poi non gli fu lasciato neanche il tempo del commiato, del bilancio. Chi ha detto che si può morire sereni? Né Seneca né un cristianesimo aiutarono Luigi a chiudere i suoi giorni. La scommessa era stata alta ed era stata perduta. Si è spento irriconciliato.

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