Giulio Lobina
Ci sono carceri e carceri. C’è Buon Cammino poco distante dal polo giuridico dell’Università di Cagliari che in quanto a numeri è sovraffollato e in quanto a polizia penitenziaria è povero e in quanto a strutture sembra una gabbia. Avete provato a guardare per qualche istante le scarpe appoggiate sul bordo del balconcino delle finestre delle celle, con le inferriate? Avete osservato i colori delle calze stese lì in alto ad asciugare, o avete almeno ascoltato i discorsi dei detenuti con i familiari che sostano sulla strada? Fortunatamente il Coordinamento Volontariato Giustizia ONLUS da un bel po’ di tempo organizza i colloqui e detenuti e parenti ritrovano un po’ di sonno e serenità senza presentarsi dalla tarda notte per i colloqui del mattino. Fortunatamente c’è chi come Bruno Asuni e tutto il suo staff, implementato da una nuova ed efficiente organizzazione messa a disposizione dalla Provincia di Cagliari, si occupa di alcune questioni logistiche. Oggi, l’Asfodelo, come ho scritto qualche mese fa, riesce anche a riportare dentro il carcere di Buon Cammino pensieri e parole dall’esterno. Chi sbaglia deve pagare. Su questo siamo tutti d’accordo. Ma l’uomo non deve mai perdere la sua dignità. E anche il carcerato ne ha diritto.
Farsi carico dei carcerati è ancora una forma di solidarietà dello Stato. Una spesa giornaliera che si aggira intorno ai 200 euro per ogni detenuto adulto. 400 per i minori. Tanti soldi per “mantenere” uomini in gabbia. Io sono sempre del parere che i “lavori di pubblica utilità” per reati contro il patrimonio siano sempre migliori anche di un solo giorno in carcere senza far nulla. Ad ogni modo, queste sono questioni molto “grandi” e dibattute da grandi penalisti. Quale sia la pena migliore per un certo tipo di reato e in quali strutture scontarla. Solo così si può seriamente pensare ad un recupero del condannato. Va bene la pena come punizione, ma per imparare qualcosa. Altrimenti che senso ha?
Ci sono carceri e carceri, dicevo. E quando si seguono Master in Criminologia Clinica e Psicologia Giuridica, si ha anche la possibilità di visitare alcuni Istituti Penitenziari. Sono stato a Rebibbia qualche giorno fa. Un carcere di “ultima generazione” dove i condannati, almeno nella parte che ci hanno mostrato, non solo hanno una sala della musica dove suonano, ma una azienda agricola dove prestano il proprio lavoro, una falegnameria dove lavorano, le cucine, i “porta pasti”, una stanza dell’arte, la palestra. Qualsiasi “lavoro” facciano all’interno di quelle mura, sono pagati. Non solo. Alcuni di essi lavorano in cooperative che li assumono proprio per lavorare dentro il carcere e capita anche che, scontata la pena, continuino a lavorare per quella stessa cooperativa in libertà. Anche la TELECOM paga una decina di carcerati che rispondono al 1254. Certo non con un contratto uguale a quello dei lavoratori in libertà. Nè con gli stessi orari. Vengono pagati la metà del dovuto e loro stessi gestiscono i turni di lavoro. La ragioneria del carcere poi apre dei conti correnti di cui loro possono usufruire. La “parte” che ho visitato io di Rebibbia è cento volte migliore del braccio “chiuso” del minorile di Quartucciu. Una parte del carcere di massima sicurezza in condizioni pietose che non accoglie detenuti e che rimane chiuso, ma completo di tutti gli arredi del carcere. Rebibbia è anche cento volte migliore di Buon Cammino. Tanto migliore che quasi quasi chi sconta la pena lì, commette un reato solo per avere di nuovo quella “famiglia” e quel rispetto che si crea dentro la monade. Il carcere è un mondo a sè. Al di fuori del tempo e dello spazio. Un mondo dove le grate alla finestra separano la libertà dalla reclusione. Capita anche ai minori stranieri non accompagnati: si fanno arrestare nuovamente perchè in carcere hanno da DORMIRE, da MANGIARE e sono anche pagati se fanno qualche lavoretto.
Rebibbia è l’ultima fermata della linea A della metropolitana a Roma. Rebibbia è l’ultima fermata della libertà di un uomo, ma la prima di un vero recupero dell’individuo. Ventisette ettari di estensione per un carcere di nuova generazione e per tutto il suo alveare di uomini e risorse. Un grande cancello per entrare. Un grande giardino all’interno dove si svolgono i colloqui con i familiari. Una chiesa in questo giardino e sotto la chiesa un teatro. Chi ci sta dentro lo vive sempre come un inferno forse, ma per chi lo vede da fuori, da libero, quel carcere è un paradiso. Per dirla poeticamente è “l’inferno dipinto con i colori del paradiso”.
Ascoltare una band di detenuti che suonavano e cantavano nella sala musica ha destato in molte colleghe un pianto infinito. Così come ci si commuove ad osservar gli abbracci e i baci nel cortile di chi si vede forse una volta al mese. E tutto sembra fermo. Il tempo si ferma. Lo stesso accade ai giovani laureati di oggi: imprigionati dalle loro lauree, alla ricerca di quel lavoro per cui hanno studiato e faticato per anni…dimentichi d’aver menti “flessibili” come dicono gli inglesi per inventarsi un nuovo lavoro, per trovare il modo per guadagnarsi da vivere onestamente.
Oggi il lavoro è una chimera. Per i giovani ancora di più. Un debito pubblico che graverà sulle nostre spalle e un governo che, anzichè pensare ai problemi comuni, si occupa solo dell’interesse del singolo Signor B. L’Innominato. Così non si pensa al lavoro o meglio chi pensa a dare lavoro è sempre e più la mafia o perchè no, quei “4 sfigati pensionati” della P3.
Il lavoro deve essere lo strumento per creare una famiglia e per farla vivere dignitosamente. Non la meta. Che triste uno Stato in cui il Governo è palesemente inadatto a governare, dove i ministri si dimettono uno dopo l’altro e si lavora solo con la fiducia, lodi alfani 1 e 2 e si sente ancora parlare di P2 e P3. Quando diremo basta?
Pare delle volte che il detenuto di Rebibbia che risponde al 1254 sia più “felice” di chi dopo due laueree frequenta un Master in Criminologia e vede da libero cosa fanno i carcerati. Una libertà con le ali tagliate è più Prigione della Prigione.
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