Ida Dominijanni - Ilmanifesto
Continuiamo la riflessione sulla candidatura Vendola, avviata criticamente da Giulio Cherchi ieri, con questo intervento di diverso tenore dell’opinionista de Il Manifesto del 21 scorso.
Più che reazioni sembrano scongiuri, trecce d’aglio contro lo spettro che si materializza. La «discesa in campo» di Vendola? «Un’esercitazione fastidiosa e inutile» per Oliviero Diliberto, un pio desiderio per Di Pietro («pensasse alla Puglia»), la mossa di «un leader interessante, suggestivo, autentico», tanto che bisogna subito «opporgli una risposta chiara» per Marco Follini. E Bersani? «non polemizza», incassa tramite Penati «l’allargamento di un’area che accetta la sfida di governo» e intanto pensa a come perimetrare la coalizione, e di conseguenza le primarie. Solo Giuseppe Civati, unico e giovane dirigente Pd ad aver partecipato al meeting barese, dice la cosa giusta, che «la candidatura di Vendola alza il tono del confronto ed è un’occasione di crescita per tutti». Le trecce d’aglio non servono, e meglio sarebbe accettare la sfida con uno scatto di reni.
Quello che s’è visto e sentito nei giorni scorsi a Bari, nell’informalità di un meeting in bermuda e t-shirt e fra un seminario sui diritti, un polpo alla griglia e una birra ghiacciata, è in primo luogo una differenza, abissale, fra la lingua paludata e vuota della politica ufficiale e quella diretta e viva di una domanda di politica fin qui non solo inevasa, ma nemmeno registrata. La lingua dell’utopia e del minoritarismo? Neanche per idea, e chi immaginasse le fabbriche come un residuo del movimentismo massimalista di novecentesca memoria sbaglierebbe di grosso.
E’ di scena una generazione che è fatta in un altro modo: precaria per destino e marginale per definizione in un paese che non sa che farsene delle lauree, dei master e dei dottorati con cui la tiene parcheggiata, ha un’idea molto pragmatica e nutrita da saperi specifici di come le cose andrebbero cambiate, i diritti riconquistati, le città reinventate; affabulata da Obama, ne studia con puntiglio mosse e contromosse, discorsi e riforme, retorica e marketing politico; bisognosa di futuro e desiderosa di sinistra, vede nella sinistra che c’è solo la morsa del passato; e se Nichi è la sua star, non è solo per le cose che dice o per come le dice ma per quello che fa e che in Puglia ha già dimostrato di saper fare. Sarebbe, questa generazione, la base ideale di una politica riformista, e infatti è con una retorica radicale ma su un programma riformista – diritti, lavoro, beni comuni, università e ricerca, «bellezza» dell’ambiente, equità fiscale- che Nichi la mobilita. Vuole vincere e non restare immortalata nel museo della rivoluzione, e perciò è con un passaggio vibrante contro lo «sconfittismo» della sinistra che Nichi la conquista: «C’è a sinistra un’etica e un’estetica della sconfitta e della bella morte, ti infilzano ma con la bandiera rossa che ti cade addosso come un sublime sipario: che palle!».
La seconda cosa che s’è vista a Bari è una convinta, tenace e tranquilla determinazione, virtù che tanto più colpisce in quanto è anch’essa del tutto sepolta nello spleen cinico-rassegnato della sinistra ufficiale. E’ lo «yes we can» in versione vendoliana, che a differenza di quella veltroniana non è solo un’esortazione o un wishful thinking ma fa leva sull’esperienza: «possiamo farcela, perché in Puglia ce l’abbiamo già fatta due volte». Il catalogo delle obiezioni – l’Italia non è la Puglia, di quando si voterà non c’è la più pallida idea, la strada delle primarie è lastricata di trappole eccetera eccetera – sbatte contro un muro di ottimismo della volontà privo di pessimismo della ragione.
Eppure la situazione consiglierebbe maggiore fedeltà alla formula gramsciana: troppe sono le incognite, non solo politiche ma di sistema, che circondano la mossa di Nichi. Non c’è solo l’incertezza massima sulla durata del governo e la data delle prossime elezioni.
C’è il lavorìo, confermato ieri da Bersani già in risposta alla candidatura Vendola, per un non meglio determinato governo di transizione. C’è l’eventualità del terzo polo, che non sarebbe privo di effetti sulla configurazione attuale del centrosinistra. Nessuna di queste ipotesi però scalfisce la convinzione delle fabbriche e dei collaboratori più vicini al governatore: si gioca d’anticipo proprio per prendere in contropiede l’incertezza dei tempi, se i poli aumentano aumentano pure le possibilità di vincere, il governo di transizione, o tecnico che sia, fornirebbe solo un argomento di polemica politica in più. Per fermare la valanga Vendola c’è solo una contromossa possibile, una riforma proporzionalista della legge elettorale che elimini le primarie di coalizione, spersonalizzi la competizione, depotenzi il carisma, disinneschi il duello diretto fra lo sfidante e «l’uomo politico più vecchio che c’è in Occidente». Non per caso la riforma elettorale è balzata da ieri al primo posto delle urgenze di Bersani. Intanto però «il desiderio che spiazza i benpensanti di destra, di centro e di sinistra», come lo chiama Nichi, si è messo in movimento. E si sa che il desiderio, quando parte, può arrivare dove vuole.
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