Alberto Piccinini
C’è un parallelismo fra la disfatta della Nazionale italiana e lo stato del Paese? E fra Lippi, ch’era l’unico a non vedere la crisi della sua squadra, e Berlusconi, che non vede la crisi del Paese? Per rispondere ai quesiti nulla ci sembra meglio di questo articolo, apparso sul Il Manifesto di ieri.
«Avevano il terrore nelle gambe». «Un problema psicologico». Il mea culpa di Lippi dopo la mesta eliminazione della Nazionale punta dritto al cuore di quella grande macchina simbolica che è il calcio. Se il calcio è metafora di un Paese, allora non stiamo messi tanto bene, e questo ci vuole poco a capirlo.
Quando si parla di psicologia, nel linguaggio insieme allusivo e cialtrone dei tecnici di football, si parla dei legami che tengono insieme una squadra attraverso il suo allenatore, e consentono a un gruppo di essere più della somma dei suoi singoli. Un misto di autorità, autoritarismo, seduzione, controllo, autocontrollo, sacrificio, felicità, rispetto, identità: la riproduzione in vitro di cose ben più importanti che possiamo riconoscere ovunque intorno a noi. E che avrebbe poco a che fare coi meccanismi di una democrazia sana, ma nel quale non possiamo non vedere qualcosa di molto vicino al disastro «psicologico» in cui è piombato il Paese. Non è colpa di Berlusconi, stavolta. Ma non si stancherà mai di ricordare l’esordio della cultura politica che oggi ci domina e iniziò con il gesto più incredibile di tutti: appropriarsi del grido della Nazionale, delle sue presunte virtù salvifiche, requisendo il Forza Italia dai cori da stadio. Oggi in Italia il calcio non è metafora del Paese, ma quasi il contrario. Il Paese è troppo facile metafora del nostro calcio. Con un fallimento mai visto nella storia dei Mondiali azzurri, Lippi azzera le virtù salvifiche della Nazionale e la sue proprie abilità manageriali. Nonostante i tanti nemici evocati - stampa, leghisti, brilla la mancanza degli arbitraggi ma sarebbero arrivati pure quelli -; nonostante il gruppo di giocatori scelto in barba ai desideri di tutti i tifosi da bar (a casa Cassano, Balotelli, Totti: i reprobi, le star, gli insubordinati); nonostante il cocciuto affidarsi a questo o a quel giocatore, la squadra non è mai sbocciata, le trame di gioco non si sono viste, il gol mai trovato, se si escludono gli ultimi 45′ della partita con la Slovacchia inutili come il finale di un melodramma senza capo né coda.
E poi: la cabala, la scaramanzia, la memoria. Non è l’Ottantadue. In tutti sensi. La vittoria di quei Mondiali dopo la sofferenza della prime tre partite, ci proiettò direttamente dentro gli anni Ottanta con le loro trasformazioni, i loro eccessi e - a posteriori - forse con la loro disperata vitalità. Con l’idea che qualcosa fosse ancora possibile. La sconfitta a questi Mondiali chiude un ciclo. E un’epoca? Si dice: ripartire dai vivai. Ma i vivai - come insegnano a questi mondiali la Germania, e la Svizzera, lasciamo stare per il momento la Francia - sono tutt’altro che una roba paesana come intende lo stolto Calderoli: sono (saranno) il crogiolo delle Seconde Generazioni, dell’Italia che verrà - e che Fini sia o no d’accordo, francamente importa poco e niente. Per questo non portare Balotelli ai Mondiali - dopo l’anno d’inferno riservatogli dalle curve di stadio - è stato un errore politico, prima che calcistico.
Affidarsi alle armi spuntate dei nostri manager, al loro paternalismo, al loro autoritarismo cialtrone mascherato da efficienza con tutta la prosopopea del caso, l’altro errore. Di nuovo: Lippi, Capello, Marchionne. Uno, Lippi si fa da parte. L’altro, Capello si è comprato la momentanea fedeltà del suo gruppo di giocatori offrendo loro una birra all’inglese. Il «gruppo» di Marchionne non si vede all’orizzonte. In tanti siamo stanchi di giocare col terrore nelle gambe.
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