Carlo Dore jr.
Quando, domenica scorsa, mi sono presentato al seggio per dare il mio voto al candidato del centro-sinistra alla Presidenza della Provincia di Cagliari, ho avuto la netta sensazione di essere chiamato, ancora una volta, a ricoprire un ruolo di secondo piano nell’ennesima, malinconica sconfitta annunciata delle forze progressiste in Sardegna. I risultati del primo turno tracciavano infatti un quadro a tinte fosche dello stato di salute dell’area democratica isolana: emergevano le troppe contraddizioni di un PD del tutto privo di canali di comunicazione con la società, l’afasia disarmante di candidati logori ed incapaci di proporre una credibile alternativa agli slogan strombazzati senza logica dai vari scherani del Cavaliere, la disaffezione crescente di un elettorato che continua a sentirsi senza guida.
Insomma, ho concepito il mio voto come un estremo (e forse addirittura inutile) atto di opposizione verso l’arroganza di un Governo che sta trasformando, giorno dopo giorno, l’Italia in una democrazia minore: un estremo atto di opposizione con cui mi accingevo a cominciare la mia triste domenica di elettore scettico.
Alla luce di questo status quo, non so descrivere il mio stupore di fronte alla realtà che ha iniziato a delinearsi dopo la chiusura delle urne: i berluscones si ritrovavano di colpo con le reni spezzate, i progressisti conquistavano Nuoro e l’Ogliastra, riuscendo persino, contro ogni pronostico, a confermarsi alla guida del Capoluogo. Insomma, il centro-sinistra sardo ha vissuto il classico “paradosso di Cristoforo Colombo”: partito alla ricerca dell’India di una sconfitta contenuta, si è ritrovato a celebrare le meraviglie dell’America di un trionfo insperato.
Tuttavia, mentre l’amministrazione regionale appena eletta rischia già di sprofondare nel baratro degli scandali orditi dalla “cricca” romana cresciuta all’ombra di Palazzo Grazioli, non posso non rilevare che questa vittoria risulta per me caratterizzata da un sapore diverso rispetto agli altri successi che hanno scandito la storia della sinistra italiana degli ultimi quindici anni: il sapore vagamente amaro ed incompiuto che nasce dalla consapevolezza di non poter andare oltre il classico sospiro di sollievo a cui mi sono abbandonato quando ho appreso che, per questa volta almeno, “avevano perso i peggiori”.
Cosa è mancato dunque a questa vittoria rispetto alla splendida cavalcata che, nel 1996, aveva trascinato l’Ulivo al governo del Paese, rispetto alla travolgente affermazione di Renato Soru del 2004, rispetto anche all’interminabile notte del 10 aprile del 2006, quando Romano Prodi si assicurò per la seconda volta la poltrona di Palazzo Chigi?
Semplice: è mancata la partecipazione della gente, è mancato l’entusiasmo che deriva dal sentirsi parte di un progetto comune, è mancata soprattutto quell’empatia tra rappresentanti e rappresentati in forza della quale la vittoria degli uni non può che essere interpretata come una vittoria degli altri. In altre parole, nel 1996, nel 2004 e nel 2006, un popolo vinceva attraverso il leader. Oggi no: oggi hanno vinto dei leader senza popolo.
Disertando in massa le urne, i sostenitori dell’area democratica non hanno infatti semplicemente dimostrato di preferire la spiaggia al seggio, ma hanno voluto dare un segnale che non può essere ignorato: un segnale di stanchezza verso una classe dirigente percepita come lontana e dannatamente autoreferenziale, un segnale di disagio verso una politica che non ne asseconda i bisogni e le istanze, un segnale di sofferenza verso la loro condizione di esuli nella terra straniera del post-ideologismo o dell’anti-ideologismo, di donatori di voti costretti periodicamente a fare muro contro la calata degli oplites inviati da Arcore per assicurare a Berlusconi il controllo del suo personale buen retiro agostano.
Le conseguenze che questa situazione rischia di generare sono sotto gli occhi di tutti: i partiti – smarrita la loro istituzionale funzione di catena di collegamento tra istituzione e società – stanno rapidamente assumendo la dimensione di “scatole vuote” idonee solo ad ammortizzare lotte interne e a delineare equilibri di potere; la militanza attiva si riduce ormai al solo esercizio del diritto di voto in occasione di processi decisionali dall’esito spesso scontato; i programmi vengono gradualmente soppiantati da slogan sparati sulla rete dai sostenitori di una piuttosto che di un’altra corrente; dirigenti e candidati vengono sempre più spesso descritti come generali senza truppe, incapaci di scaldare i cuori di una base liquefatta.
Ecco allora che, una volta smaltita l’euforia del post-voto, gli amministratori eletti la scorsa settimana saranno chiamati ad assolvere un compito che va ben al di là dei consueti riferimenti al buon governo del territorio e dei propositi di rinnovamento manifestati in campagna elettorale: essi dovranno restituire la voglia di partecipazione a quella vasta fetta di elettorato che ha manifestato la propria sfiducia attraverso l’astensione di massa. Nella consapevolezza del fatto che, se questa volta la prospettiva di una sconfitta contenuta celava l’El Dorado di una vittoria sonante, normalmente, per una forza politica non sostenuta dalla partecipazione della propria base, il paradosso di Cristoforo Colombo funziona al contrario, trasformando il miraggio tutto americano di un successo travolgente nella realtà di una sconfitta rovinosa sulle coste della povera India. E a quel punto, anche l’invito alla mobilitazione contro l’incedere della “cricca” berlusconiane potrebbe non essere sufficiente a squarciare il grigiore delle tante tristi domeniche che sembrano destinate a scandire il futuro del progressista scettico.
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