Marco Revelli
Le Carte costituzionali hanno un modo travagliato e spesso drammatico di nascere. Quando sono vere, per il fatto d’instaurare un nuovo ordinamento giuridico fondato su principi polemici verso il passato, sono frutto di rivoluzioni in senso giuridico, ma anche di profondi rivolgimenti sociali e politici. Com’è stato nel nostro Paese, dove la Costituzione repubblicana è frutto di quel grande movimento morale, politico e sociale che si chiama Resistenza.
Le Costituzioni invece muoiono quando vengono meno le forze che le hanno inverate e prevalgono altri principi, altre regole. Possono morire ed essere abrogate per il semplice instaurarsi di rapporti materiali e politici contrastanti. Quindi, prima o poi, ci sarà anche una mutazione formale, che però assumerà i caratteri di un semplice adeguamento alla situazione esistente, si manifesterà con le forme procedurali di una innocua revisione, presentata come aggiornamento, attualizzazione del vecchio testo, dichiarato ormai obsoleto.
E’ quanto sta avvenendo in Italia sotto i nostri occhi. L’art. 41, ma anche gli articoli 1 (repubblica democratica fondata sul lavoro), 2 (riconoscimento dei diritti fondamentali), 3 (principio di eguaglianza formale e sostanziale), 4 (diritto al lavoro), art. 32 (diritto alla salute), artt. 39 e 40 (libertà sindacale e diritto di sciopero), art. 46 (diritto ad una retribuzione che consenta una vita libera e dignitosa) ed altri ancora, sono attaccati e messi all’angolo dalla prepotenza padronale, dalla legge imposta da Marchionne a Pomigliano. Ce ne parla con chiarezza Marco Revelli in questo articolo (titolo originario “Fiat Pomigliano: la legge del più forte”), che già nel titolo indica il grave vulnus costituzionale in atto: la legge del più forte, ossia le legge della giungla, è l’esatto contrario della civiltà dei diritti, fondata sulle Carte costituzionali democratiche. Ma la vicenda Pomigliano mostra anche un’altra verità, dimenticata, e cioé che il tasso di democrazia di un ordinamento si misura innanzitutto sui diritti dei lavoratori, sul rispetto del loro ruolo e della loro funzione. Il padronato ne è sempre stato ben consapevole. Ed attacca in fabbrica, sapendo che la restaurazione del potere assoluto nei luoghi di lavoro segna il suo predominio anche nella società. E quanto sta accadendo a Pomigliano ne è la controprova. Pomigliano è la cartina di tornasole della nostra democrazia. A questo punto solo un sussulto di orgoglio democratico e di patriottismo costituzionale ci può salvare. (a.p)
Se fossimo in una condizione di normalità, il dilemma che si trova di fronte oggi la Fiom a Pomigliano sarebbe risolto in partenza. Essa non può sottoscrivere l’accordo proposto da Marchionne per il semplice fatto che vi si chiede la liquidazione di diritti indisponibili. Diritti che nessun sindacato potrebbe «negoziare», per il semplice fatto che non gli appartengono. Diritti che nessuno, neppure i titolari diretti, può alienare, perché costitutivi di una civiltà giuridica che trascende le parti sociali e gli individui.
Alcuni di quei diritti – come il fondamentale «diritto di sciopero» – sono sanciti costituzionalmente. Altri – come il pagamento dei primi tre giorni di malattia – sono garantiti dalla legislazione ordinaria. Altri infine – come la difesa del proprio tempo di vita da una gestione del tempo di lavoro drammaticamente soffocante e totalitaria -, fanno parte di un livello contrattuale nazionale impegnativo per tutti i contraenti. L’accettazione di un accordo aziendale che ne sacrificasse anche solo parzialmente l’operatività, significherebbe una dichiarazione di messa in mora e di inefficacia di quei tre livelli basilari del nostro assetto gius-lavoristico. Una grave lesione al modello giuridico, politico e sociale della modernità industriale.
Ma non ci troviamo in una condizione di normalità. La «dura legge» che Marchionne ha evocato non è né la Norma Costituzionale né la Legge ordinaria. È la legge di mercato, nella sua dimensione ferina del «primum vivere». Dell’«arrendersi o perire». Della darwiniana «lotta per la sopravvivenza», applicata alle imprese, agli uomini e ai territori. A Pomigliano è la verità della «globalizzazione» a materializzarsi nella forma più estrema del «prendere o lasciare», che travolge ogni principio giuridico, ogni regolazione nazionale e ogni accordo sancito.
Per questo diciamo che a Pomigliano quello che muore non è solo un modo di fare sindacato, ma è la nostra stessa modernità industriale, fatta di conflitto, negoziazione, regole e normative, a rischiare di dissolversi. E quello che si profila è un nuovo «stato di natura», in cui a contare è ormai solo la legge del più forte, momento per momento, occasione per occasione. Un mondo che non è solo post-socialista e post-novecentesco, ma che vede travolgere le stesse basi del più antico «stato liberale»: quello del costituzionalismo, dell’impero della Legge, dello Stato di diritto. Potrà apparire un caso, ma che nel medesimo tempo si allineino nel cielo del nostro paese – come in un’infausta congiunzione astrale – l’attacco di Berlusconi alla Costituzione, la legge-bavaglio dell’editoria e il «lodo Marchionne» (sbandierato da fior di ministri come «nuovo modello» di relazioni industriali), suona come un pessimo auspicio. E che a trainarci oltre quel confine sia uno come l’A.D. della Fiat, che non è un «fascista», che non veste l’orbace ma un maglioncino casual ed è stato a lungo un esempio di liberal progressista, non ci rassicura affatto. Anzi, ci spaventa di più.
Forse a Pomigliano, oggi, non c’è davvero altra alternativa che piegarsi al ricatto. Forse al voto gli operai presi dalla disperazione direbbero davvero sì a un accordo che li consegna a condizioni di lavoro servile, pur di mantenere un esile residuo di sopravvivenza produttiva. Forse, quello che incombe sulla Fiom è davvero un «dilemma mortale». Ma se almeno uno – uno! – tra i sindacati mantenesse pulite le proprie mani, e rifiutasse di sottoscrivere il pactum subiectionis che cancella tutti gli altri patti e ogni altra ragione, forse una testimonianza rimarrebbe, per tempi migliori, di un brandello di dignità e dunque di speranza.
2 commenti
1 Giulio C.
20 Giugno 2010 - 15:12
Condivido l’articolo e ho scritto in supporto anche a queste tesi una nota: http://www.facebook.com/giulio.cherchi#!/note.php?note_id=444269141398&id=1610709847&ref=mf
p.s. per Carlo Dore non ti ho trovato su fb, se no te l’avrei segnalata lì, un saluto.
2 Carlo Dore jr.
20 Giugno 2010 - 17:09
Per Giulio: me la puoi mandare per e-mail (cdorejr@gmail.com). Provvederò ad inoltrarla all’amministratore del sito per la pubblicazione.
Grazie.
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