Energia: meno e meglio

8 Giugno 2010
Nessun commento


Gonario Francesco Sedda

1. Come sarebbero “magnifiche e progressive” le sorti del capitalismo in assenza di certi “se” e certi” ma”!
Se sotto l’aspetto economico non si trovasse sempre più frequentemente scosso da impennate del prezzo del petrolio con la prospettiva di assestamenti a livelli sempre più alti di tale prezzo.
Se sotto l’aspetto ambientale non fossero sempre più evidenti i segnali di una compromissione gravissima dello stato di salute dell’intero pianeta a causa dei gas serra (soprattutto CO2) provenienti dall’uso sempre crescente di combustibili fossili.
Se sotto l’aspetto geopolitico non fosse sempre meno garantita la sicurezza degli approvvigionamenti di prodotti energetici sia per la tendenziale e/o ricorrente divergenza di interessi tra produttori e consumatori nel loro complesso sia per una nuova composizione/contraddizione di interessi all’interno di ognuno dei raggruppamenti.
L’apparato ideologico del capitalismo trionfante (intellettuali organici, tecnici, chiacchieroni da bar dello sport, dispensatori di buon senso, ecc.) non incontra molta resistenza nella sua opera per convincere il “cittadino insicuro e terrorizzato” che non è in discussione “il modo di produrre e di consumare” di una parte minoritaria (anche se importante) dell’umanità.
Ma questa minoranza “civile” mobilita a suo favore (e fuori di qualsiasi ragionevole rapporto di proporzionalità) l’80% di tutte le risorse economiche mondiali (tra le quali gran parte dei prodotti energetici), seppure non manchino forti sperequazioni al suo interno.
Minoranza dominante e resto dell’umanità si muovono secondo “divergenze parallele”.
Così, per ciò che ci interessa qui, nel 2007 il 50,2% di tutta la produzione energetica mondiale è andata ai 30 Paesi industrializzati aderenti all’OCSE (Australia, Austria, Belgio, Canada, Corea, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Messico, Norvegia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Spagna, Stati Uniti, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria). Il 9,3% è andato ai Paesi dell’ex blocco sovietico e il 40,5% al resto del mondo [BP Statistical Review of World Energy, giugno 2008].
I consumi mondiali di prodotti energetici primari commercializzati (esclusi quelli diretti da biomassa) sono stati nel 2007 di 11,1 miliardi di tep (tonnellate equivalenti di petrolio), in aumento del 2,4% rispetto al 2006 (un trend che peraltro risulta costante: negli ultimi dieci anni i consumi mondiali sono infatti aumentati del 24,6%).
Tali consumi sono stati così suddivisi:
§ Nord America 25,6% (USA 21,3%);
§ Centro e Sud America: 5,0%;
§ Europa ed Eurasia: 26,9% (UE 15,7%);
§ Medio Oriente: 5,2%;
§ Africa: 3,1%;
§ Asia e Pacifico: 34,3% (Cina 16,8%; Giappone 4,7%; India 3,6%).
Fuori da questo quadro, con numeri dati per necessità contabile da chi se ne intende, la discussione sulle politiche energetiche scivola sul piano inclinato di una illusoria concretezza che lavora per la conservazione dello stato presente delle cose.
Le disuguaglianze nell’attuale distribuzione della ricchezza energetica sono spudoratamente incivili e dovrebbero essere messe in discussione anche se non esistesse il problema del riscaldamento globale.
Una minoranza “bulgara” dell’umanità impiega troppi prodotti energetici.
Ma nel mondo 2,4 miliardi di persone non hanno energia in modo adeguato a soddisfare le esigenze vitali e 1,6 miliardi di persone non hanno proprio accesso all’energia elettrica. La povertà di quasi la metà dell’umanità è anche povertà energetica.

2. L’IEA (International Energy Agency – World energy outlook 2007) ha previsto due scenari a riguardo dell’evoluzione della domanda energetica mondiale.
Il primo è uno scenario di riferimento (basato sulle tendenze attuali) con un aumento della domanda mondiale del 55% al 2030 rispetto al 2005, da 11,4 fino a 17,7 miliardi di tep (tonnellate equivalenti di petrolio). Il 74% di questo aumento coprirà la domanda dei Paesi emergenti (Cina, India, Indonesia, Brasile, Sud-Africa, alcuni Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente).
Il secondo è uno scenario alternativo (virtuoso) che tiene conto delle politiche e delle misure governative per migliorare l’efficienza e l’impatto ambientale: in questo caso l’aumento della domanda di energia primaria al 2030 sarebbe del 32,5%, fino a 15,5 miliardi di tep.
Le emissioni di gas serra (in particolare CO2) aumenteranno comunque fino al 2030 rispetto al 2005: nello scenario di riferimento (+ 57%) e in quello alternativo (+ 27%, a condizione che vengano attuate completamente e da tutti i paesi le misure virtuose). Nel caso di successo delle politiche energetiche virtuose si avrebbe nel lungo periodo una stabilizzazione della concentrazione equivalente di CO2 nell’atmosfera pari a circa 550 parti per milione. A questa concentrazione, secondo il Comitato Intergovernativo sul Cambiamento Climatico (IPCC – Intergovernmental Panel on Climate Change), corrisponderebbe un aumento della temperatura media di 3 °C rispetto al livello preindustriale. Per limitare l’aumento medio delle temperature ad un massimo di 2,4 °C, la concentrazione dei gas serra nell’atmosfera dovrebbe essere stabilizzata a 450 parti per milione. Ma ciò richiederebbe da parte di tutti i governi misure virtuose ancora più severe di quelle indicate nello scenario alternativo dell’IEA.
Ma cosa darà il più importante contributo alla riduzione delle emissioni di gas serra? Non certamente una significativa riduzione dell’impiego di combustibili fossili: secondo lo scenario di riferimento dell’IEA, l’84% dell’aumento della domanda di energia primaria fino al 2030 sarà coperto da petrolio, carbone e gas.
Non l’apporto dell’energia nucleare che (2004) è solamente circa il 6% della produzione dell’energia primaria nel mondo e che avrà nei prossimi decenni un peso relativo non molto diverso anche con un suo non auspicabile sviluppo.
Invece l’apporto delle energie rinnovabili può essere significativo, anche se non hanno raggiunto ancora una massa critica tale da avviare un processo di sostituzione (nella produzione di energia elettrica) dei prodotti energetici fossili e di abbandono definitivo – e senza rimpianti – dell’energia da fissione nucleare. Nel 2007 il contributo delle energie rinnovabili nella copertura della domanda mondiale di energia elettrica è stato di circa il 17%. Di questa quota oltre il 90% proviene dalle centrali idroelettriche, sicché il peso relativo di tutte le altre fonti rinnovabili nella produzione mondiale di energia elettrica si riduce a circa l’1,5%.
Quali dovrebbero essere le vie da percorrere secondo lo scenario alternativo dell’IEA?
La fig. 1 indica l’incidenza percentuale delle tecnologie nella riduzione delle emissioni di gas serra al 2050 (ENEA, Rapporto energia e ambiente 2007, luglio 2008).
Si vede che la maggior incidenza attesa dovrebbe essere assicurata dal successo di misure sull’efficienza (43%) e dall’impiego di fonti rinnovabili; che l’incidenza attesa di queste ultime (21%) è direttamente confrontabile con l’incidenza dell’efficienza dei combustibili nei settori di uso finale (24%). Ma soprattutto si vede che l’incidenza attesa della filiera nucleare nella riduzione delle emissioni di gas serra è la più bassa e molto bassa (6%): il contrario di quanto si sente dire dai più accalorati sostenitori del ritorno al nucleare, prigionieri di una cultura del sì a tutti i costi. Anche per l’Italia, in due scenari di forte accelerazione tecnologica elaborati dall’ENEA, il contributo del nucleare nella riduzione delle emissioni di CO2 risulta essere il 7% nel 2020 e il 10% nel 2040.
Il limite di questo e di altri scenari emendativi delle tendenze in atto sta nel fatto che non viene messo in discussione in modo significativo il livello stesso dell’impiego di prodotti energetici, ma solo i suoi eccessi e le sue inefficienze dentro una tendenza alla crescita. È obbligatorio rispondere alla domanda sempre crescente di prodotti energetici qualunque sia, ma non è obbligatorio allo stesso modo eliminare le conseguenze negative di un loro uso crescente.
In una società tecnologicamente avanzata la domanda media di energia di una persona può superare le 250.000 kcal/giorno, equivalenti a circa 8 tonnellate di petrolio l’anno, gran parte delle quali destinate a usi industriali e ai trasporti. È proprio questo alto livello di impiego di energia che deve essere messo in discussione, sia perché vi è un limite fisico alla sua estendibilità su scala mondiale, sia perché non è più accettabile (e non viene più accettata) una così sproporzionata disuguaglianza nell’appropriazione mercantile dei prodotti energetici. Non si tratta di “tornare alla candela” e forse non è neppure appropriato parlare di “decrescita”. Si tratta di prendere la strada di uno sviluppo sostenibile non solo sul piano ambientale, ma anche sul piano sociale.
Per vincere davvero non basta il successo (per il quale bisogna lavorare) di un nuovo “no al nucleare” e la pressione per un sempre più largo impiego delle energie rinnovabili.
È chiaro che da una parte la mancanza di nucleare in Italia non ha accelerato in modo determinante il cambiamento climatico e che dall’altra parte la presenza di un settore nucleare (stagnante per ragioni economiche) in altri paesi del mondo non ha contribuito in modo determinante a contenere l’emissione di gas serra.
I paesi nuclearisti sono nello stesso tempo quelli che producono la maggior quantità di gas serra e quindi tra i maggiori responsabili del cambiamento climatico.

Fig. 1 - Incidenza percentuale delle tecnologie nella riduzione delle emissioni di gas serra al 2050.

Il fatto è che il nucleare serve per produrre energia elettrica e che questa forma di energia rappresenta meno di un quarto della domanda mondiale di energia. Quindi, se il nucleare avesse tutte le virtù che gli vengono attribuite, se non vi fossero oppositori “oscurantisti” e se con la sua filiera si producesse tutta l’energia elettrica richiesta, anche così il suo contributo sarebbe comunque limitato e “non necessariamente” significativo ai fini della diminuzione delle emissioni di CO2. Infatti il peso relativo dell’energia elettrica prodotta eventualmente nella sua totalità col nucleare dipenderebbe dalla dinamica delle altre voci che compongono la domanda di energia.
Anche l’impiego di prodotti energetici rinnovabili può convivere con un aumento di quello dei combustibili fossili: svolge una funzione calmierante ai fini del controllo delle emissioni di gas serra. L’economia “verde” così intesa è compatibile con un alto livello di impiego di energia e può contribuire a confermare o rafforzare le disuguaglianze tra i popoli del mondo. La tecnologia che la dovrebbe sostenere viene sviluppata non in una prospettiva di un contemporaneo godimento universale, ma dentro angusti confini proprietari. Così come la terapia per l’AIDS è stata messa a punto (e viene perfezionata) per una minoranza di malati che possono pagarla e non per la maggioranza di malati poveri. Lo sviluppo viene scandito secondo lo schema classico dei due tempi: il primo tempo è sempre e immediatamente disponibile per chi ha già abbastanza (o molto); il secondo tempo non arriva mai ed è quello per chi ha poco.

0 commenti

  • Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.

Lascia un commento