Patrizia Gabrielli
Per ricordare l’importanza che il 2 giugno 1946 ha avuto nella storia d’Italia, pubblichiamo uno stralcio di questo lavoro di P. Gabrielli, che ha il pregio di mettere in luce la portata rivoluzionaria dell’inclusione delle donne nell’elettorato attivo e passivo. Il 2 giugno 1946 le donne votarono e furono votate per la prima volta nel nostro Paese.
Lunghissima attesa davanti ai seggi elettorali. Sembra di essere tornate alle code per l’acqua, per i generi razionati. Abbiamo tutti nel petto un vuoto da giorni d’esame, ripassiamo lentalmente la lezione: quel simbolo, quel segno, una crocetta accanto a quel nome. Stringiamo le schede come biglietti d’amore. Si vedono molti sgabelli pieghevoli infilati al braccio di donne timorose di stancarsi e molte tasche gonfie per il pacchetto della colazione. Le conversazioni che nascono tra uomini e donne hanno un tono diverso, alla pari.
Milioni di donne in tutta Italia, nelle grandi città industriali del nord come in quelle del centro sud, nei piccoli centri agricoli e nelle comunità montane, sostano composte in lunghe file davanti ai seggi elettorali: è il 2 giugno del 1946.
È una giornata soleggiata, indossano abiti leggeri, almeno le più giovani, ma tante, soprattutto le anziane, espongono un rigoroso lutto, in molti casi segno delle atrocità della guerra, in altri specchio di quell’Italia contadina lontana dai processi di modernizzazione e secolarizzazione. Alcune sono semplicemente abbigliate, altre sfoggiano toilettes più accurate, sebbene i disagi del dopoguerra sembrino non favorire i consumi. Che il paese viva gravi difficoltà economiche lo richiamano le odiate scarpe ortopediche, accessori fissati nelle memorie come il simbolo del sacrificio e della rinuncia alla femminilità imposti dal conflitto bellico. Le immagini dei cinegiornali ci mostrano note stelle del cinema, la popolare Anna Magnani, insieme a volti sconosciuti, tutte alle prese con il primo voto.
Il 2 giugno del 1946 le italiane si recano alle urne per la prima volta – se si escludono le amministrative del marzo, aprile 1946 che riguardano soltanto alcune regioni – per esprimere la propria volontà politica sul referendum Monarchia o Repubblica, e per eleggere i membri dell’Assemblea costituente. È una consultazione importante nei successivi decenni si susseguiranno, seppure con toni e intensità diverse, celebrazioni e dibattiti, mentre andrà accumulandosi una produzione di ricerche e di studi che ricostruiranno i principali passaggi, le biografie dei leader e di molti esponenti della Costituente, invece, si trascurerà – almeno fino a dieci anni fa – l’importanza e la novità rappresentata dal conseguimento del suffragio femminile attivo e passivo e i suoi riflessi nel panorama politico e culturale. Eppure «era un’occasione storica, non solo per l’importanza delle questioni in gioco, ma anche per il fatto che le donne poterono votare per la prima volta nella storia italiana». Come ha ricordato Nadia Spano, che nella sua nutrita biografia contava anche l’elezione alla Costituente, si trattò di «un evento storico» capace di produrre un cambiamento epocale.
Quel voto infrangeva una concezione del diritto di cittadinanza quale territorio maschile, fondato su un concetto «di uguaglianza improntata al principio dell’omologazione», incentrata sul «principio astratto dell’universalismo dei diritti
» che nasconde, invece, una connotazione sessuata. Si sgretolavano le ragioni di un privilegio e le basi sul quale erano nate le società moderne. Un fondamento che ha visto, almeno dalla fine del Settecento, con Mary Woolstonecraft e Olympia De Gouges, una critica serrata volta a ridefinire il paradigma della cittadinanza e il concetto di uguaglianza per affermare i diritti degli uomini e delle donne nel quadro dell’“equivalenza” più che della semplice uguaglianza. Venne così scalfita la netta divisione tra sfere di competenza maschili e femminili con la loro conseguente esclusione delle donne dalla sfera pubblica, secondo il principio del loro “naturale” compito di mogli e di madri, e in quanto tali affidate alla dimensione privata. Un privato, scrive Hannah Arendt, luogo «della più rigida disuguaglianza» opposto alla polis centro della libertà e del potere.
Dalle “madri” del femminismo ad oggi si è sviluppato un nutrito dibattito teorico sulla cittadinanza, che vede al proprio interno diverse interpretazioni e orientamenti. Un dato assodato per il caso italiano, ma non solo, risiede nella scelta dei movimenti politici delle donne di scardinare la rigida divisione tra pubblico e privato e di fare della maternità e del lavoro di cura – che in qualche caso si propone come una vera e propria etica della cura – da basi per l’esclusione dalla cittadinanza a valori per l’accesso ad essa, un progetto che contiene in sé una ridefinizione del binomio diritti doveri.
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