Andrea Pubusa
Mannoni e Sabattini coi loro interventi, stimolati dalle suggestioni delle letture di importanti contributi del pensiero riformatore, hanno posto un quesito: su quali idee forza costruire una sinistra in Italia? I due contributi muovono – mi pare - da un assunto comune, e cioè che la propensione statalista della sinistra va rimessa in discussione e, nelle forme in cui si è manifestata storicamente sia nella versione socialista sia in quella comunista, va abbandonata. Soprattutto Sabattini poi sembra sposare le tesi limitative del conflitto in favore della collaborazione fra mondo del lavoro e impresa.
Sulla prima questione balza agli occhi un paradosso. Il pensiero di sinistra e socialista è nato in molte delle sue correnti principali (non solo nella versione anarchica) con una propensione dichiaratamente antistatalista per poi inverarsi, nel Novecento, nel suo esatto contrario. Ma è proprio qui che bisogna dar fondo alla memoria. Ad esempio, una delle lezioni più dimenticate di Marx è proprio questa: la sua critica radicale allo Stato e la sua ferma convinzione che la democrazia avanza proporzionalmente alla sua regressione fino a dispiegarsi pienamente con la sua estinzione. Ed, in effetti, l’alto tasso di verità di questa impostazione lo cogliamo analizzando l’esperienza del comunismo reale, proprio con gli occhi del barbuto di Treviri. Una gigantesca e pervasiva macchina statale, creata per soddisfare i bisogni delle masse, diventa ben presto uno strumento poco efficiente nell’erogare prestazioni e un apparato di repressione anziché di liberazione.
Dunque, la critica allo statalismo, oggi appannaggio dei neocons e delle destre, in realtà è stata una delle armi del pensiero della sinistra. Certamente - come molti hanno autorevolmente notato - Marx non ha sviluppato una teoria dello Stato; non ci ha detto quale Stato avrebbe voluto. Ma in realtà – a ben vedere – l’obiezione nasconde una intima incomprensione del pensiero dell’esule tedesco. Proprio perché Marx si piccava di non essere un utopista non si è mai avventurato nella costruzione di una società ideale: non era “marxista”, così come non lo era abbozzare comunque i lineamenti di uno Stato, posto che per Marx la democrazia compiuta era pensabile solo con la scomparsa di un apparato distinto e sovrapposto ai cittadini.
E se qualcuno ha la curiosità di rivedersi le riflessioni acutissime che Marx fece sulla Comune di Parigi, si renderà conto che gli aspetti che più lo colpiscono sono quelli volti ad eliminare i corpi tradizionali dello Stato per riassorbirli nella società, per rimetterli in mano ai cittadini: l’esercito è così sostituito dai comunardi in armi; i burocrati e i magistrati di carriera da funzionari elettivi e revocabili e senza stipendi di favore (pagati come gli operai); anche per i parlamentari s’ipotizza il vincolo di mandato e la revoca. La critica è tagliente e vale anche oggi: la democrazia non si esercita ogni cinque anni e solo nelle urne; postula un esercizio continuo. Lo Stato ha poi una struttura decisamente federalista, con un forte tasso di sussidiarietà dal basso.
Ma perché questa rilettura di un classico ora un può demodé? Perché in effetti in esso c’è una preziosa indicazione di un possibile approccio per la ricostruzione di un pensiero di sinistra. E cioè partire dall’idea che una spinta egualitaria non solo non cozza, ma ha come indefettibile fattore propulsivo l’estensione della democrazia e che il suo realizzarsi sposta a livello sociale pezzi di potere dello Stato del Welfare e contende le decisioni ai grandi gruppi economici del super capitalismo odierno. Insomma, il punto di partenza dev’essere la persona e le formazioni sociali in cui essa si realizza. Ecco che così l’individuo e i gruppi sociali non sono solo i destinatari di erogazioni e prestazioni dello Stato, ma divengono loro stessi gli attori del loro benessere e della loro eguaglianza. Questo sembra ad esempio il filo seguito da Zapatero nella nuova legge sull’amministrazione digitale (ossia sulla nuova amministrazione), dove il punto di riferimento è il cittadino e non l’amministrazione; contrariamente a quanto tradizionalmente si fa quando si pensa alla riforma della macchina burocratica, nella quale il soggetto è sempre la macchina stessa e non i cittadini che devono guidarla e servirsene. In parte è così anche nella nostra, pur importantissima, legge 241/1990.
Anche sull’eguaglianza ex ante ed ex post vedo una forzatura: se i due momenti sono scissi, è difficile ipotizzare l’eguaglianza dei punti di partenza che presuppongono l’esistenza di un sistema di regole e di mezzi che l’abbiano realizzata, ossia di una forma di eguaglianza ex post base di partenza per una eguaglianza ex ante. Mi pare che i due elementi stiano fra loro in un inscindibile nesso dialettico. Pertanto penso alla uguaglianza e alla libertà come ad un moto perenne libertà - uguaglianza, libertà – uguaglianza- libertà e così in eterno. Si supera in questomodo l’astrattezza di una pura eguaglianza ex ante che non sia l’esito di un’eguaglianza ex post e, nel contempo, l’idea tanto nefasta di pensare ai cittadini come meri e passivi destinatari di un’eguaglianza propinata da altri, il partito o l’amministrazione, che finisce sempre per creare nuove sudditanze e nuovi autoritarismi, e dunque un’odiosa nuova disuguaglianza (il comunismo reale docet; ma non sono da meno certe forme di Welfare inefficace, sprecone e clientelare).
E l’uso della forza? Qui il riferimento a Gramsci è d’obbligo. Il pensatore sardo è forse quello che più ha interpretato creativamente il marxismo, poiché ha tolto dal conflitto (pur sempre necessario) il terribile volto delle armi per ricondurlo a quello delle idee. E’ l’egemonia culturale a creare la forza politica necessaria ai processi di riforma democratica. E quanto sia vera e utile questa “pensata” lo vediamo oggi paradossalmente a nostre spese: abbandonata dalla sinistra anche italiana la teoria dell’egemonia è coscientemente applicata dagli intellettuali neocons che su di essa hanno fondato e fondano la vittoria del neoliberismo. Anche l’idea che il conflitto sia obsoleto, in fondo, è una forma di egemonia del supercapitalismo attuale sulle forze democratiche e del lavoro. In casa nostra anche il berlusconismo è una forma di egemonia culturale e lo si vede bene oggi, ch’esso pervade anche larghi strati della “opposizione”. Il veltronismo ne è una versione più evidente, anche quando ipotizza più la collaborazione come motore della storia che il conflitto.
In conclusione, oggi, come nell’Ottocento di Marx e nel Novecento di Gamsci, il punto di partenza e di arrivo è la battaglia democratica, che spezza e ridimensiona lo Stato come escrescenza repressiva o compressiva, anche quando sembra soddisfare diritti. In questa rifondazione del pensiero e dell’azione della sinistra forse un ancoraggio sicuro c’è già, e sta nella nostra Costituzione, che certo và reinterpretata e aggiornata, ma alla luce di quella dialettica fondamentale fra art. 1 (sovranità popolare, democraticità dell’ordinamento e lavoro), art. 2 (diritto inviolabili, dell’individuo e delle formazioni sociali), e art. 3 (eguaglianza finalizzata alla partecipazione dei lavoratori all’organizzazione sociale, economica e politica del Paese e partecipazione finalizzata a nuovi livelli di eguaglianza). Riscopriamo la passione di alimentare il moto perpetuo libertà-eguaglianza!
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