Gaetano Azzariti - Costituzionalista- Il Manifesto
Nei giorni scorsi il tam tam sulla revisione della Costituzione è diventato assordante. Ne ha parlato Berlusconi, che ha rilanciato la sua idea monocratica di forma di governo, quella - per intenderci - già battuta col referendum del giugno del 2006. Gli fa eco il Presidente Napolitano, che invita alla condivisione delle grandi riforme e alla concordia nazionale, idest col Cavaliere.
Ecco qui l’opinione di un autorevole costituzionalista dell’Ateneo romano, che mette in luce i tanti perché di un no all’invito di Napolitano e alle sirene del centrodestra. Comunque, al momento, ci ha pensato lo stesso Berlusconi a bloccare ogni velleità bipartisan. La riforma che a lui interessa è il lodo Alfano con veste di legge costituzionale. Un salvacondotto penale a vita, che allontani per sempre i magistrati che bussano alla sua porta per chiamarlo a giudizio. Scudo penale per oggi e per domani, per il presidente del consiglio e per il presidente della Repubblica.
Ecco ora l’intervento di Gaetano Azzariti
Un grande e prolungato applauso ha accompagnato l’appello videoregistrato di Berlusconi a modificare la Costituzione repubblicana coinvolgendo l’opposizione. Mi chiedo allora se ci si debba veramente sedere tutti attorno ad un tavolo «per scrivere insieme una nuova pagina condivisa della storia della nostra democrazia e della nostra Italia». Basta provare, basta volerlo, sembra essere l’indicazione del leader della maggioranza. In fondo è già riuscito ai nostri padri costituenti che «seppero accantonare le differenze politiche più profonde» per sancire nella costituzione «il migliore compromesso allora possibile». Se è riuscito in quell’occasione drammatica, perché non dovrebbe ripetersi nel mondo patinato dell’Italia di oggi?
Forse perché per scrivere una costituzione è necessario avere chiaro il modello di civiltà che si vuole raggiungere, è necessario sapere ciò da cui ci si vuole allontanare. Far passare il compromesso costituzionale come un qualunque accordo politico tra diverse componenti che può ottenersi grazie alla sola buona volontà dei leader è un inganno. Nel secondo dopoguerra in Italia la nostra Costituzione non ha solo fissato delle regole organizzative neutre, né ha semplicemente individuato delle tecniche di governo purchessia. Il «mirabile compromesso» fu raggiunto proprio perché, nonostante le divisioni politiche, si riuscirono ad individuare, sul piano più alto (quello proprio della Costituzione), i valori e i principi che potevano essere da tutti condivisi in quanto espressione di una cultura costituzionale democratica e pluralista che rifiutava la concentrazione dei poteri e l’autoritarismo del sistema precedente. Una forma di governo parlamentare che rinveniva nell’effettività della rappresentanza politica il suo centro vitale, una forma di Stato democratica che assegnava alla repubblica il compito di riconoscere e garantire la dignità umana, l’eguaglianza e la libertà delle persone. Scelte di civiltà, non opzioni di convenienza perché qualcuno governi senza principi.
Ed ora qual è il modello costituzionale che ci viene proposto? Da un lato quello vuoto e retorico che viene esibito dinnanzi alle telecamere, dall’altro quello autoritario e populista che sostanzia l’ideologia del Capo. Di fronte alle telecamere è l’arte dell’imbonitore che domina. Come altro chiamare, infatti, un programma di riforme costituzionali che si propone di avere uno Stato «più vicino al popolo», «più efficiente nelle istituzioni e nell’azione di governo», «più equo nell’amministrazione», nonché - ovviamente - una «giustizia veramente giusta». Alzi la mano chi vuole il contrario, chi aspira - chessò - a una giustizia veramente ingiusta. Dietro a questa facciata c’è ovviamente dell’altro. Un revisionismo costituzionale che non da oggi è stato enunciato. Trovò persino una sua formalizzazione compiuta nel testo della «nuova» costituzione approvato dal centrodestra e che fu nettamente respinto dal referendum del 2006. Un modello di «premierato assoluto» unico al mondo, che ci avrebbe fatto allontanare pericolosamente da ogni tradizione di democrazia pluralista, come allora venne denunciato da gran parte della cultura costituzionale.
Quella del referendum costituzionale fu l’ultima grande vittoria delle forze progressiste, che riuscirono a far capire la pericolosità del disegno controriformatore delle destre populiste. Dopo di allora si è precipitati nella confusione, frastornati dalle fragili vittorie (Governo Prodi) trasformate in laceranti fallimenti, dalle sconfitte politiche ripetute e dalle divisioni interne, dall’avvento al potere dell’Italia peggiore, dal degradarsi dello spirito pubblico. Non può stupire quindi se oggi torna prepotente il disegno di dare un nuovo volto al nostro Paese. Una costituzione che rifletta il presente: senza rappresentanza effettiva e con un organo parlamentare ai margini del sistema politico, una forma di Stato in cui il rapporto tra Capo e popolo deve essere di natura identitaria, diretto, non mediato da alcuno (né partiti, né parlamenti, né organi di garanzia istituzionali), un potere «paterno» che non ha bisogno di essere giudicato, che saprà farsi ben volere dai sudditi, che saprà trattare con gli altri feudatari e signori. Il medioevo prossimo venturo.
Siamo sicuri che sia opportuno sedersi al tavolo del Signore per discutere di queste riforme? Meglio pensare a un patto repubblicano che recuperi la dimensione perduta della costituzione democratica e pluralista. Quella che ancora è scritta, ma sempre meno praticata.
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