Gianluca Scroccu
I manuali di storia per le scuole superiori e l’università dedicano sempre un capitolo all’età giolittiana: presto saranno costrette a ritagliare uno spazio adeguato anche all’età berlusconiana. Lo scrive Antonio Gibelli nel suo “Berlusconi passato alla storia. L’Italia nell’era della democrazia autoritaria”, appena pubblicato da Donzelli (euro 12,50, pagine 122).
Docente di storia contemporanea all’Università di Genova, tra i massimi esperti della storia della Prima guerra mondiale a cui ha dedicato studi fondamentali, l’autore propone un’analisi storiografica senza reticenze del fenomeno berlusconiano. Il tutto raccontato in chiave critica come si fa normalmente per spiegare agli studenti le caratteristiche fondamentali di un determinato fatto storico. La figura dell’attuale presidente del Consiglio sembra così emergere in tutta la sua complessità e unicità nel campo della politica dell’età della postdemocrazia.
Lo storico ne racconta la genesi soffermandosi soprattutto sulle ragioni del successo, a partire dall’utilizzo e dall’applicazione alla politica delle logiche del marketing pubblicitario, il luogo dove avviene lo scambio continuo tra la dimensione virtuale e quella reale e le promesse possono tranquillamente essere decantate ma mai soggette a verifica. Un’egemonia culturale, quella costruita dall’attuale premier, fondata sull’utilizzo sempre più invasivo e trasgressivo della televisione privata a partire dagli anni Ottanta, diventata poi straordinario veicolo di condizionamento una volta applicata alla comunicazione pubblica post-Tangentopoli.
Il Berlusconi che affiora dalle pagine del volume è un uomo che, pur provenendo dall’antipolitica, è riuscito a cogliere pulsioni di un elettorato ben radicato nel Paese di cui è stato capace di rappresentare le tendenze antifiscaliste, l’egoismo individuale spinto sino all’affermazione di un edonismo e di un culto dell’immagine non esente da venature sessiste e pseudomachiste diventate poi un vero e proprio marchio di fabbrica della retorica del leader.
Questo ha permesso al premier, secondo l’autore, di dirigere sempre la competizione elettorale grazie al controllo del sistema televisivo privato e di buona parte di quello pubblico, caso unico nelle liberaldemocrazie occidentali, nascondendo così tutte le ambiguità di promesse basate su riforme presentate come miracolistiche ma di fatto inapplicate. Attorno alla sua figura e al suo corpo, dice Gibelli, è nata una sorta di investitura sacrale che evoca in maniera più o meno evidente alcune esperienze politiche autoritarie del Novecento dove era forte il culto del capo.
Tuttavia tali comparazioni presentano anche delle radicali differenze: particolarmente felici sono ad esempio le pagine in cui lo storico spiega, da una parte, come Mussolini riuscì a plasmare l’italiano nuovo solo dopo la presa del potere, dall’altra, come Berlusconi prima abbia condizionato i suoi concittadini col linguaggio delle sue televisioni grazie ad un’azione pluridecennale e solo dopo raggiunto il potere politico. È potuta così emergere una figura di imprenditore politico, gravato da un conflitto di interessi che non ha eguali nel contesto europeo, insofferente ai vincoli posti dagli altri poteri costituzionali, siano essi la magistratura, la Corte Costituzionale o il Parlamento.
Capace di vincere ripetute elezioni, anche se grazie all’apporto di una forza come la Lega che ha finito per trasformare il Pdl in un partito del Mezzogiorno. Una forma di democrazia autoritaria basata sulla fascinazione del leader e il richiamo diretto al popolo che ha potuto affermarsi anche per colpa di un’opposizione autoreferenziale e incapace di costruire un’alternativa credibile.
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