PRC: una discussione che non coinvolge

14 Giugno 2008
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Red

Abbiamo letto con attenzione le interviste che Vendola e Ferrero hanno rilasciato alla stampa di sinistra (L’Unità e Il Manifesto). In estrema sintesi abbiamo capito questo: Vendola punta più direttamente alla creazione di una forza unitaria di sinistra, ritenendo che l’identità sia più un quid da costruire che un bene acquisito da conservare; Ferrero, invece, mira a preservare l’identità del partito e a rifondare “Rifondazione” dal basso, dai movimenti, per poi spendere questo patrimonio nella creazione di un progetto più ampio.
La prima considerazione che vien da fare è che ragionevolmente le due ipotesi dovrebbero convivere. La costruzione di una sinistra ampia non comporta l’annullamento di ciò che già esiste ma richiede piuttosto un suo superamento. L’esistente, dunque, va giocato per creare qualcosa di nuovo, e per far questo serve sia un movimento dal basso sia una volontà di unificazione dall’alto, dagli attuali gruppi dirigenti. Vendola intriga di più per la sua volontà di ricerca, che pare confortata dalla considerazione che ciò che Ferrero vuol salvare in effetti è già morto. Ha ragione Francesco Cocco quando in questo blog osserva che l’eredità del PCI, su cui PRC ma anche PCDI (oltre che il PDS poi DS), hanno campato è ormai consumata (forse meglio sperperata) e che le attuali organizzazioni non ne costituiscono la miniatura e neppure la caricatura; sono semplicemente altro. Coglie una parte di verità Ferrero quando ammonisce che la formazione di una sinistra non può essere operazione esclusivamente politicista, “di solo ceto politico”, ma deve essere sociale, deve ripartire da un forte coinvolgimento di massa. La sinistra, infatti, non è mai stata solo testa, gruppo dirigente, ma blocco sociale organizzato e consapevole.
 Vien da chiedersi tuttavia a chi interessi questo dibattito, chi ne sia coinvolto e appassionato. Pare nessuno al di fuori di chi parteggia per l’uno o per l’altro (ossia gli iscritti schierati nell’una o l’altra corrente) o di chi è disposto a farlo, iscrivendosi per dar peso all’una o l’altra fazione in lotta.
 L’altro elemento di sconcerto nasce dalla contraddizione che si rileva nella trasposizione sul piano locale delle posizioni nazionali: in Sardegna i sostenitori di Vendola sono chiusi più di una cella di Sing Sing e sono prevalentemente orientati ad una piccola gestione di potere all’ombra di Soru. Il contrario di quanto ci si aspetterebbe da un gruppo vendoliano. I seguaci di Ferrero, invece, sono più aperti, più autonomi rispetto al potere e più immersi nei movimenti e maggiormente propensi a forme di democrazia partecipata; in una parola, per molti aspetti, sembrano, nei fatti, più vendoliani dei bertinottiani. Il che fa sorgere il sospetto che in ampi settori del PRC i riferimenti nazionali siano solo un pretesto nella lotta per il controllo del partito.
Ma torniamo al quesito iniziale: a chi interessa tutto questo? Un tempo le grandi discussioni nella sinistra erano seguite con passione dall’insieme dell’intellettualità e del mondo del lavoro e diveniva oggetto di dibattito fin nel più piccolo paesino o nella più minuta realtà operaia. Oggi, l’iter congressuale di PRC (ma anche del PDCI) non solo non affascina, ma crea un istintivo e rabbioso moto di rigetto. E la ragione sta proprio nel fatto che in passato alle grandi sconfitte è seguito un grosso impegno unitario, una volontà collettiva di riscossa, a cui sono state chiamate anzitutto le masse, i riferimenti sociali della sinistra. Oggi PRC, col suo dibattito rissoso, evoca più i bisticci per la divisione degli eredi corpore presenti che l’idea di un riflessione appassionata per il rilancio. E noi che stiamo fuori? Sentiamo tutto il peso di questi limite. Siamo semplicemente, pregiudizialmente e, spesso, astiosamente esclusi. Ed anche notazioni come questa sono viste con fastidio dagli addetti ai lavori. Ma la sinistra o appassiona e coinvolge o non è. Ecco perché non ci sembra lontano dal vero chi pensa che PRC, dopo aver tentato il suicidio, stia facendo il bis e questa volta con successo. E non sembra ingiustificata l’opinione di quanti pensano che, in fondo, sia meglio così. Anche perché della tradizione comunista italiana non mantiene alcun tratto; il suo dibattito ricorda di più le lotte correntizie dei momenti più cupi della storia di altri partiti comunisti. Vorremmo sbagliare, ma per la sinistra la speranza di nuova vita sembra abbia come indefettibile presupposto la rimozione di tutto questo, perché così il luogo è impraticabile.

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