Maria Grazia Caligaris
La realtà del sistema carcerario nel nostro Paese mostra aspetti contraddittori per non dire irrazionali. La legge sull’ordinamento penitenziario che, 34 anni fa, nel 1975, ha dettato le norme sulla funzione degli Istituti di Pena quali luoghi di recupero e rieducazione del condannato, in sintonia con il principio costituzionale sancito all’articolo 27, non viene rispettata se non parzialmente. A impedirne l’attuazione sono innanzitutto le strutture penitenziarie.
In Sardegna gli Istituti di Pena sono prevalentemente vetusti e gli adattamenti succedutisi nel tempo non ne hanno comunque modificato l’impianto ottocentesco con spazi angusti per le attività riabilitative e per iniziative idonee a costruire un percorso di reintegrazione nella società.
La realtà carceraria, inoltre, è fortemente condizionata dal numero di detenuti in costante aumento, di agenti di Polizia, di operatori dell’area educativa e di psicologi del tutto insufficienti. E’ quindi una galassia che per poter operare secondo la finalità assegnatagli deve necessariamente avere in perfetto equilibrio le diverse componenti.
In Sardegna inoltre si registra un ulteriore condizione discriminatoria. In assenza di istituti di pena femminili, nelle carceri isolane esistono solo sezioni destinate alle donne detenute. Si tratta nella maggior parte dei casi di extracomunitarie in attesa di giudizio per reati prevalentemente legati alla detenzione per spaccio di sostanze stupefacenti o alla induzione e sfruttamento della prostituzione. Le detenute sarde sono poche, anziane e con diverse malattie. Spiccano invece quelle nigeriane e, periodicamente, le nomadi. Rare le definitive con lunga detenzione.
L’assenza di un istituto di pena femminile condiziona pesantemente la vita delle detenute che dispongono di spazi limitati per le attività rieducative. L’aspetto più paradossale è però rappresentato dall’esiguità del numero – pur nei periodi di sovraffollamento come quello attuale – che, anche per la tipologia dei reati e la nazionalità, non consente di attivare iniziative e corsi di formazione con l’acquisizione di professionalità utilizzabili fuori dall’Istituto. Il risultato è una permanenza dietro le sbarre animata principalmente da attività di cucito, ricamo, lavori ad uncinetto e di maglieria.
Molte di queste donne potrebbero addirittura non restare in carcere se ci fossero strutture alternative in cui scontare la pena e per alcune di esse, in condizioni di salute incompatibili con la detenzione, si pone il problema di individuare residenze sanitarie assistite. Nella maggior parte dei casi sono gli istituti di religiose ad accogliere queste persone in stato di necessità ma ovviamente si tratta di ospitalità non istituzionali.
A complicare il quadro, rendendolo ancora più doloroso, è la presenza anche negli Istituti sardi di minori sotto i tre anni. La normativa vigente nega la possibilità di separare il piccolo dalla madre, ciò in particolare nei primissimi anni di vita. Un principio nobile e di indiscutibile valore che intende salvaguardare il rapporto madre/figlio in un momento particolarmente delicato. In realtà né madri con prole nella primissima infanzia né donne incinte dovrebbero stare in carcere per le evidenti conseguenze che l’esperienza può determinare. Si tratta peraltro di ambienti inadeguati, anche sotto il profilo igienico-sanitario, per l’assenza di spazi all’aria aperta.
E’ altrettanto vero che, per andare incontro alle esigenze di queste detenute/madri, sono state predisposte da alcuni anni aree attrezzate. Per ottenerle è stato però necessario effettuare pressioni nei confronti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Nel carcere di San Sebastiano di Sassari, dove peraltro attualmente è detenuta una madre con un bambino, è stato allestito uno spazio nido. A Buoncammino c’è una cella, con annesso un bagno provvisto di doccia, le cui pareti sono state dipinte in modo tale da rendere meno oppressiva la permanenza ai bimbi. Uno sforzo apprezzabile da parte del DAP ma che non risolve il problema alla radice. E’ evidente infatti che nel caso di minori, lo Stato contraddice se stesso perché sta sottoponendo a misura restrittiva un innocente sottoponendolo a traumi che la vicinanza della mamma e gli sforzi delle Agenti della Polizia Penitenziari non sono sufficienti per eliminarli.
Appare inoltre indubbio che non può essere considerata semplicisticamente responsabile di reato di spaccio una donna, spesso giovanissima, con un bimbo di pochi mesi in braccio (e talvolta con un altro di qualche settimana nel ventre) sorpresa con ovuli di droga in corpo. Ritenere che si tratti di una personalità di spicco nella catena dello spaccio di sostanze stupefacenti è un’ipotesi scarsamente convincente. In assenza di alternative, la donna e la sua prole vengono portate in carcere e messe a disposizione dell’autorità giudiziaria. Ciò avviene anche quando c’è un furto in appartamento da parte di donne nomadi, in genere zingare anch’esse con neonati al seguito.
Non tutto il sistema carcerario italiano però è improntato a questa prassi. Ci sono infatti Istituti di Pena dove i detenuti che abbiano figli, specie se minori, possono incontrare la famiglia e condividere una giornata insieme in un ambiente che riproduce una casa-monolocale con angolo cottura e servizi. Così come ormai da alcuni anni le donne incinte e con prole di età inferiore ai tre anni quando vengono dichiarate in stato di arresto non vengono accompagnate in carcere ma accedono a strutture alternative. Scontano la pena ma senza che la loro responsabilità ricada sui figli.
Avviene in Lombardia. La Provincia di Milano, in accordo con il Ministero della Giustizia, il Ministero dell’Istruzione dell’Università e Ricerca, la Regione Lombardia e il Comune di Milano, ha messo ha disposizione una palazzina per allestire una casa a custodia attenuata per 10-12 detenute e i loro figli. Si offrono alle donne ristrette percorsi personalizzati volti al recupero sociale con un attenzione specifica rivolta a: istruzione, formazione, accompagnamento al lavoro e alla mediazione linguistica culturale.
Non solo. La Provincia di Milano ha predisposto un progetto per garantire spazi di colloquio adeguati ai bambini con interventi nella Casa Circondariale di Monza. Sarà così possibile favorire ciò che viene definito il diritto alle relazioni affettive dei detenuti sancito dall’articolo 28 dell’ordinamento penitenziario.
In Sardegna, nella precedente legislatura sono stati stanziati dei fondi appositi per disporre di case da destinare alle donne con bambini. Non si tratta di cifre esorbitanti e il Consiglio regionale nella Finanziaria 2010 può confermare l’impegno di spesa. E’ una problema di dignità e di civiltà ma è anche una prospettiva che può dare positivi frutti anche sul piano dei posti di lavoro. La sicurezza più duratura è quella che nasce dalla giustizia sociale e dal recupero di chi ha sbagliato. Mettere in carcere i neonati e promuovere le ronde invece non mi sembra possa essere una politica condivisibile.
Per le aderenti a “Socialismo Diritti Riforme” trascorrere alcune ore a Buoncammino con le detenute, un bimbo di 1 anno e mezzo e le agenti di polizia penitenziaria in occasione dell’8 marzo 2010 ha voluto significare prendere coscienza di una realtà di sofferenza ma anche agire. Costruire insieme i presupposti perché i bambini non entrino mai più dentro le carceri. E’ stato anche un segnale di condivisione del disagio e un riconoscimento per chi opera dentro le strutture penitenziarie con responsabilità.
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