Francesco Cocco
La vicenda che ha investito il sindaco di Bologna, Flavio Delbono, non è un fatto di semplice scorrettezza contabile-amministrativa. Senza entrare negli aspetti penali, per i quali auspichiamo che Delbono possa dimostrare la propria innocenza, si avverte la sensazione che sia finito il mito del capoluogo emiliano come la dimensione ideale che avvicinava i militanti di sinistra alla realizzazione delle loro aspirazioni: efficienza, correttezza amministrativa, attenzione ai bisogni della gente. Insomma Bologna e l’Emilia erano qualcosa che faceva di quella città e di quella regione una specie di “socialismo realizzato” in versione italiana. Anche molti avversari del PCI e del PSI (i partiti al governo in quella realtà) non di rado alle elezioni regionali ed amministrative finivano per votare a sinistra, riconoscendo l’assoluta onestà ed efficienza di quegli amministratori.
Era il riconoscimento di una “diversità morale” che faceva la differenza con gli “altri”. A formare la differenza era una storia, risalente agli inizi del Novecento, fatta di amministratori integerrimi , organizzatori di cooperative, dirigenti politici devoti “alla causa” prima che agli interessi personali. Senza dimenticare un clero democratico come dimostra l’esempio di don Minzoni, l’eroico martire antifascista di Argenta. Enrico Berlinguer fu l’ultimo segretario del PCI ad insistere sulla diversità morale, intesa non certo come sciocca “boria di partito” ma come assunzione di una particolare responsabilità per portare l’Italia verso livelli di democrazia compiuta..
Poi venne il craxismo e, a seguire, il berlusconismo. Così anche a sinistra si affacciò l’idea che bisognava seguire la “normalità”. Cioè bisognava fare come i più, perché l’affermazione della diversità sarebbe stata una forma di presunzione che allontanava dalla possibilità d’incontrare, dialogare ed unirsi agli altri. Anche se gli altri erano quelli che stavano portando l’Italia allo sfascio.
Il risultato di un tale processo politico ha fatto nascere la convinzione che la politica può, anzi deve marciare distinta dalla morale. Paradossalmente è persino accaduto che avere carichi penali pendenti sia lo strumento per sedersi a parità di posizione al tavolo di coloro che contano nell’amministrazione della cosa pubblica. Insomma per farsi riconoscere come “uno dei loro”. Ne è seguita la scomparsa del senso elementare del pudore, in una profonda trasformazione del costume che ha finito per penetrare a sinistra, in partiti che dicevano di affondare le loro radici nella tradizione del movimento operaio.
Anche l’Emilia “rossa” è stata investita, pur se in forma marginale, da una tale processo di “omologazione”. Così qualche anno fa la più importante espressione del movimento cooperativistico, l’Unipol, società assicurativa quotata in borsa, ad un passo dalla conquista della BNL, è stata interessata dallo “scandalo Consorte”, l’amministratore delegato che pare si muovesse all’unisono con i finanzieri d’assalto, noti come i “furbetti del quartierino”. Qualche giorno fa lo scandalo Delbono. Può sembrare piccola cosa, ed è tale secondo i perversi parametri che sono andati imponendosi nell’opinione pubblica. Ma Bologna e la sua amministrazione comunale hanno sempre perseguito una sorta di “sacralità” della finanza pubblica, ed oggi sentiamo che quella sacralità è violata.
Non ci resta che augurarci che Consorte e Delbono riescano a dimostrare l’ estraneità ai fatti di cui sono accusati. Ne saremmo felici per loro e soprattutto per quel che le realtà da essi amministrate hanno rappresentato e rappresentano nelle coscienze dei sinceri democratici. Se così non sarà abbiamo il dovere di non arrenderci al degrado per dimostrare la doverosa fedeltà agli ideali di coloro che, in oltre un secolo di lotte, quelle realtà così “diverse” hanno saputo creare.
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