L’incubatrice del razzismo

17 Gennaio 2010
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Stefano Rodotà

In questo articolo, pubblicato il 23 settembre 2008 sul quotidiano «La Repubblica», Stefano Rodotà propone una riflessione interessante e articolata sul neorazzismo in Italia. Ci sembra molto attuale. Eccola.

Esempi di oratoria all’annuale raduno a Venezia della Lega: «Macché moschee, gli immigrati vadano a pregare e pisciare nel deserto» (Giancarlo Gentilini, che rivendica la primogenitura come “sindaco-sceriffo” d’Italia); «Non ci rompete più i coglioni con gli immigrati, vecchie facce di merda» (Mario Borghezio, parlamentare). Le storie parallele possono essere ingannevoli, e vanno maneggiate con cautela. Ma questo accostamento mostra il diverso senso di responsabilità di chi governa, dietro il quale vi è una diversa sensibilità delle opinioni pubbliche.
Le parole dette a Venezia sono il segno d’un degrado pericoloso, e non del parlar schietto di cui i leghisti si vantano. Nella loro brutalità, dovrebbero aiutare a comprendere meglio che cosa sta diventando questo Paese. Il linguaggio anticipa, accompagna, spiega. Invece, viene ormai ignorato (silenzio di quasi tutto il sistema dell’informazione sulla qualità dell’oratoria veneziana), mentre offre una traccia preziosa, seguendo la quale si chiariscono fenomeni che vanno ben al di là del mondo leghista.

1. La Lega e il territorio

I risultati delle ultime elezioni politiche ci hanno consegnato la Lega come vera vincitrice. E si è improvvisamente scoperto che la ragione forse più importante del suo successo sta nel rapporto che i leghisti e i loro amministratori hanno saputo stabilire con il «territorio».
Da qui molte considerazioni: non è vero che servono soltanto partiti «leggeri»; non è vero che tutto può essere affidato alle pure strategie comunicative; non è vero che i cittadini possono essere considerati solo come carne da sondaggio; non è vero che l’amministrazione oculata non paga. Indicazioni in sé importanti, se non altro perché mostrano come non esista solo il modello berlusconiano di raccolta del consenso, e dunque la vanità e l’insensatezza della corsa verso una indistinta postmodernità che consegnerebbe i partiti «popolari» soltanto all’archeologia politica (altra cosa, evidentemente, sono le tecniche nuove di costruzione d’un partito popolare nel terzo millennio).
Ma l’esperienza e il successo leghista sono fatti anche di altre cose, esattamente quelle che danno radici locali agli spiriti che i leader affidano, e non è la prima volta, alle alate parole citate all’inizio. Non siamo solo di fronte ad una esasperazione dell’intolleranza. Si sta costruendo anche un territorio in senso «etologico», rispondendo appunto a quell’«imperativo territoriale» di cui parlava Robert Andrey, che spinge molte specie a marcare confini, invalicabili anche se fisicamente invisibili, all’interno dei quali nessuno può penetrare e, se lo fa, scatta istintivamente una reazione anche violenta.
Andate altrove, ripetono ossessivamente i leghisti all’«altro» – immigrato, rom, omosessuale – riprendendo (inconsapevoli?) i paradigmi terribili del razzismo. Su questo s’innesta una identità esasperata che, in molte situazioni, diviene il più forte collante sociale. Di questo fenomeno profondo, di quest’idea premoderna impastata di terra e sangue, regressiva, lontanissima dal modo in cui i partiti popolari storici avevano costruito il rapporto con il territorio, vogliamo riconoscere l’esistenza, discuterne seriamente e mettere a punto strategie politiche per contrastarlo?

2. Un Paese mitridatizzato

Se questo non avviene, è perché si è creata nel tempo un’abitudine, un’assuefazione, in definitiva una rassegnazione. Uno storicismo da quattro soldi induce a pensare e ad agire registrando un successo della Lega di cui non resterebbe che prendere atto realisticamente. Di fronte a questo dato dovrebbe tacere la lotta politica, quella vera, che va alle radici culturali e sociali dei fenomeni. Ecco, allora, le debolezze delle varie sinistre, che si sono mosse senza essere capaci di sciogliere l’intreccio tra la nuova dimensione del localismo, ben individuata dalla Lega, e una serie di manifestazioni che non possono essere derubricate come folklore.
A questo si è aggiunta la narrazione berlusconiana, che va avanti da anni e che, quali che siano le «intemperanze» di Bossi e dei suoi, blandisce, rassicura, ammicca, dice che in fondo sono ragazzate che avranno un epilogo rassicurante nelle bicchierate del lunedì ad Arcore. Si coglie qui una furberia politica ed un messaggio rassicurante. «Vi garantisco che la Lega può essere addomesticata, che i leghisti non impugneranno mai i fucili di cui parlano». Si legittima così la politica della Lega in tutte le sue manifestazioni che, proprio perché appaiono paganti, finiscono per divenire un modello per alleati e concorrenti.
Inoltre, fino a quando la Lega continua ad esibire anche questa faccia, finisce in qualche modo con il dipendere dalla mediazione, politica o personale, di qualcun altro. Ma, in questo modo, nulla si fa per arrestare il degrado civile, l’involgarirsi generale del linguaggio che rivela l’abbandono di criteri fondativi della democrazia, l’eguaglianza e il rispetto della dignità delle persone in primo luogo.
E non è soltanto la Lega a portare la responsabilità della situazione che si è determinata.

3. Europa

Altri Paesi hanno conosciuto fenomeni simili ma, per intelligenza politica e consapevolezza culturale, hanno fatto in modo che potessero essere circoscritti. Questo spiega l’attenzione preoccupata dell’Unione europea per una serie di vicende italiane: assistiamo all’accelerarsi di dinamiche politiche e sociali che rendono evidenti non il rischio, ma la realtà di pratiche discriminatorie e di vere e proprie aggressioni razziste.
La risonanza europea di quel che sta accadendo non può essere attenuata esibendo qualche modifica di norme inizialmente più aggressive. È il contesto che, giustamente, inquieta. Vi è una preoccupazione delle istituzioni europee per il modo in cui le norme vengono concretamente applicate, e permangono i giudizi negativi sull’aggravante prevista per i reati commessi dagli immigrati.
Una delegazione della Commissione per le libertà pubbliche del Parlamento europeo ha appena concluso una sua visita in Italia proprio per acquisire direttamente elementi per valutare la situazione dei rom. L’Agenzia europea per i diritti fondamentali ha pubblicato un rapporto sull’assalto al campo rom di Ponticelli. Da qui vengono le contestazioni a rappresentanti del Governo italiano nel corso di una conferenza a Bruxelles: e i nostri diplomatici, invece di levare inutili proteste, dovrebbero aiutare il Governo a comprendere le reazioni europee, il clima che ormai avvolge le politiche italiane in materia di immigrazione, e non solo.

4. Immigrati buoni e cattivi

Questa distinzione ricorre continuamente nelle discussioni, per mettere in evidenza che le politiche ispirate alla sicurezza pubblica non devono essere temute da chi è venuto nel nostro paese con buone intenzioni, e qui lavora e si comporta correttamente.
Ma chiunque conosca la realtà di molte prefetture e questure, delle modalità dei controlli di polizia, sa che troppo spesso le cose vanno in modo diverso. Mi riferisco ai casi in cui è certo che ci si trova di fronte ad immigrati regolari, a situazioni in cui non esiste alcun pericolo. Molte volte, parlando con immigrati regolari alle prese con le estenuanti e inutili trafile per i continui rinnovi del permesso di soggiorno, ho sentito questa frase: «ci trattano come animali».
Vorrei che il ministro Maroni impartisse disposizioni severe perché ogni persona venga rispettata, soprattutto quando si trova nella condizione di non poter nemmeno protestare, non dico abbozzare una reazione. No, allora, alle urla, agli atteggiamenti intimidatori, all’uso del tu come se ci si rivolgesse ad esseri inferiori, agli apprezzamenti sui tratti del viso o sulle donne, all’insofferenza verso qualsiasi richiesta di spiegazioni. Lì, in quei luoghi, l’immigrato incontra lo Stato. Solo se lo vedrà accogliente riuscirà a rispettarlo.

5. Razzismo?

La parola spaventa, ma dev’essere pronunciata. Di fronte a vicende drammatiche, e spaventosamente eloquenti, ecco subito l’esorcismo: Milano non è razzista, Roma non è razzista e via elencando paesi e città. Che cosa vuol dire? Vi è una specie di immunizzazione territoriale per cui qualsiasi cosa accada in certi luoghi il contagio razzista è impossibile?
Sappiamo che non è così. I razzisti sono tra noi, non in Italia soltanto, ma noi dobbiamo chiederci se stiamo facendo abbastanza non solo per combatterli, ma per evitare che si sentano i veri rappresentanti del tempo.

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