Aigues Mortes (1893)- Rosarno (2010)

16 Gennaio 2010
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Alessandro Allemano


Mai come in questi giorni si parla di razzismo e della necessità di integrazione fra culture diverse. La caccia al nero di Rosarno ha purtroppo tanti tragici precedenti e molti hanno come vittime gli italiani, popolo di migranti fino a pochi decenni fà.
E’ quindi necessario non dimenticare, non perdere la memoria storica. Ecco perché è importante ricordare, con le parole di Alessandro Allemano, un fatto avvenuto poco più di un secolo fa ad Agues Mortes, un bel paese della Francia meridionale (Camargue - Provenza), quando la comunità di operai italiani, che vi si era stanziata spinta dalla necessità di lavoro, fu oggetto di una furiosa violenza xenofoba.
Le similitudini con i fatti di Rosarno (a parte gli esiti, per fortuna, meno tragìci), sono ovviamente… puramente casuali.

Erano gli anni duri di fine Ottocento.
La situazione di vita nelle campagne si stava facendo sempre più precaria; per le famiglie numerose, costrette per lo più ai contratti di schiavanza, l’esubero di manodopera e la contemporanea presenza di persone da sfamare in qualche modo non permetteva alternative al trasferimento da un paese all’altro come avventizi o “servi di campagna” .
Gli operai italiani, sopratutto del Nord, si dirigono preferibilmente nella vicina Francia. Ma lo fanno all’avventura, senza aver prima avuta una qualche assicurazione di trovarvi lavoro e privi di risorse, tant’è che il Ministro dell’Interno rammenta loro “le ben note difficoltà cui possano andare incontro, e le misere condizioni alle quali verranno a ridursi”.
Ad Aigues Mortes, cittadina di 4000 anime, nel dipartimento di Gard nella Francia meridionale, sulle Bocche del Rodano a 25 chilometri da Nîmes e da Montpellier, si trovava una nutrita colonia di operai italiani che avevano trovato occupazione nelle vicine saline di Perrier e Peccais; i nostri connazionali erano preferiti ai colleghi francesi perché meno sindacalizzati e disposti ad accettare paghe inferiori pur di poter lavorare. Il lavoro in salina era duro, scarsamente remunerato, e si svolgeva in un ambiente paludoso, dove sempre erano in agguato le febbri malariche. “Tutti questi operai lavoravano in condizioni penose, esposti tutto il giorno a un sole ardente, con gli occhi bruciati dal bagliore accecante dei cristalli di sale che scintillavano al sole, senza altra ombra dove riposare gli occhi che non fosse quella del cappello a larghe falde, coi corpi che gocciolavano di sudore, coperti di graffiature, scorticati dal canestro di vimini, mal protetti da una tela di sacco gettata sulla spalla, con le mani tagliate dai cristalli di sale, calzando zoccoli di legno guarniti di paglia”.
Da secoli l’estrazione del sale era occupazione riservata quasi esclusivamente agli ex-galeotti, ma proprio nel 1893 la Compagnia delle saline aveva assoldato 600 italiani e 150 francesi, anche se di questi ultimi se ne erano presentati 800: gli italiani pur di lavorare avevano accettato una paga sensibilmente inferiore (circa i due terzi) rispetto ai francesi.
I connazionali emigrati vivevano a circa dieci chilometri dal paese, sistemati alla meglio in grandi capanni con il tetto di frasche: la maggior parte però dormiva all’aperto, sotto un ombrellone, appoggiando il capo contro un tronco di legno a mo’ di guanciale.
Le relazioni dei nostri connazionali con i residenti francesi erano sempre state tese, caratterizzate da grande diffidenza, quando non da aperta ostilità.
“I rapporti non erano mai stati buoni e i francesi avevano sempre avuto qualcosa da rimproverare agli italiani. Tutti ladri e puttane, protettori e fannulloni. Pronti a mangiare il loro pane. Le cose peggiorarono quando si cominciò a parlare del rinnovo della Triplice, che scadeva nel febbraio del ‘91. I francesi, che si occupavano di politica più degli italiani, sapevano che l’Italia avrebbe spinto per quel rinnovo. Uno schiaffo per la Francia che ospitava e dava lavoro a tanti italiani senza chiedere a loro che ne pensassero della Triplice.
Per la verità gli italiani che lavoravano in Francia avevano altri problemi. Avevano il problema del lavoro, della casa, del mangiare, dei familiari rimasti in Italia … E non si arrabbiarono quando i francesi cominciarono a chiamarli «ritals». Non ne conoscevano il significato ma di certo era offensivo. Non si arrabbiarono e aggiunsero «ritals» alla lista dove stavano già «briseurs» e «macaronis» e continuarono a rispondere «ui mossiè» e a chinare il capo”.
Con il passare del tempo la diffidenza dei francesi verso gli italiani si faceva sempre più accentuata e sfociò in una vera e propria caccia, il 17 agosto 1893. Causa prossima degli scontri sarebbe stato, la mattina del 15, il tentativo di un piemontese di lavare un fazzoletto sporco di sale usando l’acqua potabile. Ecco come il bel libro di Guccini e Macchiavelli ricostruisce il fatto:
“Cominciò proprio alle saline di Peccais durante la pausa del mattino: gli operai francesi e italiani mangiavano in silenzio la zuppa, sistemati alla meglio sul bordo delle paludi; per gioco, o forse per sfregio, un francese gettò della sabbia sul pane che un torinese stava mangiando, seduto dinanzi a lui.
Il torinese non protestò. Pulì il pane con il fazzoletto che poi andò a lavare nella bacinella di acqua dolce che la «Compagnie» distribuiva esclusivamente per uso potabile. L’acqua dolce era preziosa, specie nei mesi estivi.
«Ehi tu, orso!» gli gridò il francese. Gli altri suoi compatrioti ridevano, ma forse era solo rabbia repressa per troppo tempo. «Lo sai o non lo sai che con quell’acqua ci dobbiamo arrivare a sera? Se vuoi lavare il fazzoletto, pisciaci sopra che tanto è lo stesso per un italiano come te!».
Il torinese era un tale di poche parole ma ci sapeva fare con il coltello. Che estrasse dalla tasca, aprì e agitò sotto il naso del francese: «Merda! Io me ne fotto di te e di tutti i francesi!»
L’episodio non ebbe apparentemente seguito, ma era il segno di umori più profondi. E così, dopo varie schermaglie, la mattina di giovedì 17 agosto oltre 500 francesi inferociti attaccarono i capanni che ospitavano circa 100 italiani: da quel momento ebbe inizio una colossale caccia all’italiano, che devastò la cittadina di Aigues Mortes e i suoi sobborghi. Al grido di “A morte gli italiani! Viva l’anarchia! Viva la Francia e morte all’Italia! Fuori gli orsi italiani!”, la folla, armata di pietre, bastoni e forconi diede l’assalto agli improvvisati rifugi dei nostri connazionali, scoperchiando il tetto e devastando ogni cosa. Un operaio che si trovava coricato febbricitante venne massacrato a colpi di mattoni.
Intervenne la forza pubblica (18 gendarmi) che fece sgombrare i capanni e intimò agli italiani di portarsi alla stazione per non provocare l’ira dei manifestanti; tra gli insulti, gli scherni e le bastonate iniziarono ad allontanarsi, ma ben presto vennero accerchiati dalla turba che portava in alto le bandiere tricolori della Repubblica Francese. Risuonarono alcuni colpi d’arma da fuoco sparati dai gendarmi e dai manifestanti: l’operaio Secondo Porta di Roatto d’Asti, colpito da una bastonata, cadde bocconi, esanime. Un francese che aveva percosso il cavallo d’un gendarme venne da questo freddato senza esitazione: il suo cadavere fu portato in corteo e anche di questa assurda morte si accusarono “les italiens”.
Molti connazionali, vistisi spacciati, tentarono il tutto per tutto, gettandosi negli stagni salmastri o fingendosi morti: alcuni fortunati sarebbero riusciti ad attraversare gli stagni e a raggiungere Marsiglia a piedi dopo una marcia estenuante.
Una ventina di piemontesi, gettatisi nella melma dell’”Etang des Pesquieres”, vi rimasero imprigionati e bersagliati dalle pietre che i francesi lanciavano dagli argini: moriranno tutti, ad eccezione di un tale Antonio Cappellini, che riparerà anch’egli a Marsiglia.
La furiosa caccia all’italiano durò due giorni. Non sarà possibile stilare un esatto bilancio delle vittime, poichè molti corpi senza vita -e qualcuno ancora in vita- furono gettati senza pietà nelle paludi e mai più ritrovati.
Il numero dei morti può andare da un minimo -improbabile- di 7 o 9 (secondo la stampa francese) fino a 50 o più (secondo il “Times” di Londra): altre fonti parleranno addirittura di un centinaio di vittime, oltre ad un centinaio di feriti.
Va sottolineato l’atteggiamento tenuto nel corso della vicenda dalle autorità locali e in primo luogo dal maire (sindaco) di Aigues Mortes: costui mentre infuriava la follia xenofoba pubblicò due proclami in cui si annunciava che la Compagnie aveva ritirato ogni provvista di lavoro agli italiani e che lo scopo delle manifestazioni si era realizzato: “Raccogliamoci per curare le nostre ferite e, recandoci pacificamente al lavoro, proviamo che il nostro scopo è stato raggiunto, e le nostre rivendicazioni soddisfatte”.
Né va dimenticata l’assai scarsa umanità dimostrata dagli ospedali locali, che per ben otto oro si erano rifiutati di accogliere e curare i feriti.
I superstiti delle violenze di Aigues Mortes, circondati dall’odio della popolazione locale, ormai considerati e trattati come pericolosi criminali, furono avviati alla frontiera di Ventimiglia e rimpatriati.

1 commento

  • 1 luca
    4 Maggio 2010 - 15:59

    Il succedersi di eventi cruenti di questo genere non ci a fatto capire ancora l’importanza dell’accoglienza e del rispetto. Mi sono appassionato dopo un articolo letto su Alias

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