Red
Dopo una notte di lavoro, all’alba il vertice Onu sul clima non ha ancora approvato un documento ufficiale. Sul tavolo un’ipotesi di accordo che per alcuni è una enunciazione di principi che nascondono in realtà disaccordo, mentre per altri - la stragrande maggioranza - è un successo anche se non perfetto.
Intorno alle 22,00 il presidente americano, Barack Obama, insieme ad altri quattro paesi (Cina, India, Sudafrica e Brasile), più l’Ue, ha assentito ad un accordo “significativo”, ma certo insufficiente.
Un accordo senza cifre sulle riduzioni della Co2, con il riconoscimento dei dati scientifici che stabiliscono a 2 gradi il massimo di aumento della temperatura, e con una certezza solo sui fondi, 30 miliardi di dollari nel triennio 2010-2012 e 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020. A vincere è la Cina che aveva rifiutato il target di emissioni globali al 2050 del 50% per tutti i paesi. L’Ue accetta, anche se in modo timido, e il presidente francese, Nicolas Sarkozy esprime “delusione” per il mancato riferimento al taglio delle emissioni globali e annuncia una nuova Conferenza a Bonn entro 6 mesi. Ma proprio nella notte sul documento si accendono gli animi.
Nella sessione Plenaria della Conferenza, quando tutto sembrava scontato, parte il fuoco di fila dei paesi latini che contestano la procedura che ha portato al testo. A capitanare la ‘rivolta’ é ancora una volta il simbolo della Conferenza, il piccolo Arcipelago del Pacifico, Tuvalu, che rischia di affondare sotto la spinta dei cambiamenti climatici. Il primo ministro Apisai Ielemia mette in chiaro che il futuro del suo piccolo stato “non è in vendita” e cita i 30 denari di Giuda. Un applauso spontaneo e scrosciante ha sottolineato il suo intervento. Sulla stessa linea d’onda intervengono a raffica Venezuela, Cuba, Costa Rica, Bolivia. Quindi prende la parola il Nicaragua ’strappandola’ agli Stati Uniti. Il Nicaragua presenta una mozione, poi ritirata.
Nel pomeriggio di ieri l’asse Usa-Cina aveva messo il sigillo sul vertice. La mattina, al suo arrivo a Copenaghen, il presidente americano, Barack Obama, aveva subito precisato: “Siamo qui non per parlare ma per agire” chiamando il mondo a un accordo anche “se imperfetto”. Obama aveva anche detto che “l’America è pronta a prendersi le sue responsabilità in quanto leader”. “Non sareste qui se non foste convinti che il pericolo è reale. Il cambiamento climatico non è fantascienza, ma è scienza, è reale”. Alla fine l’applauso è freddo e più di cortesia che di giubilo. Dagli Usa infatti non sono arrivati nuovi impegni. Il presidente Usa ieri ha confermato la posizione interna e gli aiuti ai paesi in via di sviluppo ma nulla di più. Certo, ha ribadito la riduzione di C02 del 17% entro il 2020 rispetto al 2005, così come previsto dalla legislazione pendente davanti al Congresso.
Non sembra dunque eccessiva la critica ad alzo zero di Greenpeace.
“Questo presunto accordo è un fiasco totale, è anche un passo indietro rispetto al protocollo di Kyoto”, dice il direttore generale di Greenpeace, il francese Pascal Husting, alla prima lettura del testo finale dell’accordo di Copenaghen. “Se un capo di stato proverà a dire che questo accordo è un successo - ha aggiunto Husting - vincerà la Palma d’Oro per la comunicazione più menzognera dell’anno”. Nella bozza circolata spariscono gli impegni vincolanti e collettivi, al loro posto un elenco delle disponibilità di ogni singolo stato. “Non c’é un solo punto - ha continuato il responsabile di Greenpeace - in cui si parla di obbligatorietà degli accordi. Il protocollo di Kyoto era insufficiente, ma almeno era vincolante. Questo testo è la prova che gli egoismi nazionali prevalgono ed è anche la versione più debole tra quelle circolate oggi”. “I dati scientifici sono certi e non possono cambiare - ha concluso Husting - Ma se dopo tanti anni si arriva a questo significa che la politica ha fallito. Allora ci sono solo due possibilità: o si cambia la politica o si cambiano i politici”.
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