Matti da legare

3 Giugno 2008
1 Commento


Antonello Murgia

-Qualche riflessione fra psichiatria e diritti-

Gli ultimi 2 anni sono stati segnati da avvenimenti che hanno portato la psichiatria in Sardegna alla ribalta nazionale sia per il modello di intervento sostenuto dall’amministrazione regionale (e dall’ASL 8 di Cagliari che ha fatto da apripista nella realizzazione delle strategie regionali in materia) che per la morte di un paziente ricoverato nello SPDC (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura) dell’Ospedale “S.S. Trinità”. La morte di un paziente, per un operatore sanitario, rappresenta comunque una sconfitta, anche quando è inevitabile; tuttavia, l’avvio del procedimento penale contro due medici per omicidio colposo e i recenti arresti domiciliari per un altro medico, stavolta con accuse non più di colpa, ma di dolo (sostituzione di reperti autoptici relativi al paziente etc.), delineano un quadro certamente più doloroso ed inquietante. Non intendo esprimere giudizi sulle vicende processuali, di cui ho una conoscenza sommaria e sulle quali comunque spetta alla magistratura esprimersi; mi permetto solamente di sperare che, nell’interesse di tutti, sia riconosciuta l’innocenza dei colleghi, soprattutto rispetto alle accuse più gravi.
Occorre invece parlare di programmi ed obiettivi di salute mentale (e di salute in generale), perché la vicenda processuale (e quella disciplinare ad essa connessa) non deve inquinare le scelte relative ad un diritto sancito dalla Costituzione.
Lo spartiacque rispetto alla tutela della salute mentale, in Italia ma non solo, è rappresentato dalla legge 180 meglio conosciuta come legge Basaglia e di cui 2 settimane fa si è festeggiato il trentennale: essa fece chiudere i manicomi e segnò il passaggio da un approccio al malato mentale di tipo repressivo ad un approccio di tipo curativo e riabilitativo. Fu un modello vincente, che suscitò l’interesse di molti Paesi per l’umanizzazione che introduceva, cui è stato riconosciuto un ruolo importante anche per lo sviluppo della democrazia in Italia. Al contempo esso aveva non trascurabili vantaggi economici: vennero chiusi 80.000 posti letto e fu creata una rete di servizi, case-famiglia, centri di salute mentale che appunto coniugava maggiore qualità ed umanità con minore spesa. Alcuni Paesi, come ad es. la Francia, hanno cercato di importare il nostro modello, ma non sono riusciti ad applicarlo integralmente ed oggi devono fare i conti con la persistenza di ospedali psichiatrici (in Francia per circa 40.000 posti letto) che offrono un’assistenza che per loro stessa ammissione è di bassa qualità a fronte di costi consistenti. Oggi la chiusura dei manicomi costituisce un obiettivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
E’ importante aggiungere che la previsione, da parte della destra politica e professionale (ostile alla riforma) di un aumento dei reati ad opera dei dimessi dai manicomi non si è mai verificata.
Nel 1968 ero studente del V anno al liceo Pacinotti che si era proprio quell’anno trasferito nell’attuale sede di via Liguria; dalle finestre del 3° piano si vedeva il cortile di Villa Clara popolato da degenti malvestiti, diversi dei quali nudi dalla vita in giù anche in inverno, alcuni che restavano immobili per tempi lunghissimi, altri che compivano indefinitamente gli stessi gesti, tutti che apparivano abbandonati a se stessi. L’anno successivo, fresco d’iscrizione, raccolsi l’invito rivolto agli studenti di Medicina dal prof. Terzian, Direttore della Clinica Neurologica, a visitare l’Ospedale psichiatrico ed ebbi modo di cogliere il carattere carcerario dell’istituzione. Nemmeno in carcere è giusta, né utile ad alcuno, in nessun senso, una negazione così dura dei diritti, ma in quel caso ciò appariva tanto più odioso, non solo per la mancanza di colpe da parte di chi subiva quel trattamento, ma soprattutto perché essa approfittava della ridotta capacità di quei malati a difendere i propri diritti. Su quella realtà intervenne la legge 180 e fu una straordinaria battaglia di giustizia e di libertà: credo che non dobbiamo mai dimenticarci questo fatto quando ragioniamo di salute mentale.
Fra i caposaldi della L. 180 (v. art. 1) ed anche della legge che nello stesso anno istituì il Servizio Sanitario Nazionale (L. 833/1978: v. art. 33) c’è la volontarietà dei trattamenti sanitari. Il trattamento obbligatorio è previsto, ma solo come eccezione ben codificata e regolamentata. Nel rapporto medico/paziente è quest’ultimo (o i suoi legali rappresentanti) a possedere la titolarità della decisione. E per fugare qualsiasi dubbio ed equivoco, la norma, confermata da recenti sentenze di Tribunali e Cassazione, stabilisce che il consenso informato rilasciato dal paziente “… è la condizione imprescindibile per trasformare un atto normalmente illecito (la violazione dell’integrità psicofisica) in un atto lecito…” (sentenza n. 3520/2005 del Tribunale di Milano, V sezione civile). Questa norma rappresenta la conclusione di un percorso culturale partito dall’antichità (codice di Hammurabi circa 2.000 a.C., Ippocrate circa 400 a. C.) con un’impostazione di tipo paternalistico e approdata per tappe successive al riconoscimento dei diritti del malato. Per Ippocrate non solo il trattamento sanitario era lecito, ma il medico non doveva informare il pz. né sulla malattia, né sulla terapia. E’ la lunga fase in cui le conoscenze scientifiche sono molto poche e l’efficacia della cura si basa fondamentalmente su quello che oggi viene chiamato effetto placebo, cioè la convinzione da parte del pz., giusta o sbagliata che fosse, che il medico stava risolvendo i suoi problemi di salute.
Non per nulla nelle società primitive i ruoli del medico e del sacerdote facevano capo alla stessa persona. Tali ruoli andarono progressivamente separandosi, ma il potere decisionale rimase saldamente nelle mani del medico fin ben oltre il Medio Evo. Le cose cominciano a cambiare in modo deciso con l’avvento dell’Illuminismo a fine 1700 (v. codice etico di Thomas Percival nel 1803). Una forte accelerazione al riconoscimento dei diritti del malato venne in seguito al contributo dato da medici alle atrocità commesse dai nazisti nella 2a guerra mondiale. Al processo di Norimberga seguì, sempre nel 1948, la dichiarazione di Ginevra dell’Associazione Medica Mondiale che sancì l’impegno a non utilizzare le conoscenze mediche, neppure sotto costrizione, contro le leggi dell’umanità.
Oggi in Italia “gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori devono essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato. L’unità sanitaria locale opera per ridurre il ricorso ai suddetti trattamenti sanitari obbligatori” (legge 833/1978 art. 33 comma 4). E invece, nel dibattito seguito alla morte del paziente sottoposto a contenzione fisica nello SPDC, si sono sentite e lette alcune posizioni che da un lato giustificavano la contenzione stessa come presidio terapeutico fondato scientificamente e dall’altro tradivano il fastidio per gli interventi sull’argomento di persone non esperte della materia. A chi criticava l’uso della contenzione è stato inoltre obiettato che il personale di assistenza è in genere insufficiente, soprattutto di notte. In questi casi può capitare che un paziente agitato debba, nell’interesse prima di tutto suo, ma anche degli altri, essere contenuto. Ma questa scelta deve essere valutata caso per caso e può essere fatta solo quando gli altri trattamenti non siano sufficienti. E quando essa dipende più da motivi di carattere organizzativo (personale carente) che da necessità terapeutica, va seguita prioritariamente la strada più corretta (richiesta del personale necessario a fronteggiare l’emergenza). In psichiatria, più che nelle altre discipline, è fondamentale, per l’efficacia della terapia, acquisire il consenso e la fiducia del malato. E allora la contenzione può essere utilizzata in casi ben selezionati; purché non si voglia attribuirle il carattere di mezzo terapeutico ordinario che né la comunità scientifica, né le leggi dello Stato le riconoscono.
Il fastidio manifestato da alcuni operatori nei confronti delle associazioni dei malati e la riluttanza al confronto con i non addetti ai lavori tradisce un ritardo culturale ed indica che l’approccio paternalista precedente le riforme degli ultimi 60 anni non è stato superato da tutti. Per questo occorre ribadire con forza che nel campo dei diritti fondamentali è il cittadino che detiene il potere decisionale, mentre il tecnico svolge un ruolo di consulenza importantissimo, ma che non può mai prevaricare la volontà di chi richiede la sua opera.

1 commento

  • 1 S.P.
    4 Giugno 2008 - 09:40

    L’intervento di A.M. ci fà riflettere sul carattere veramente rivoluzionario della riforma Basaglia: dare ai malati di mente, ossia a persone da sempre considerati incapaci, la dignità e i diritti che spettano a tutti gli uomini è veramente una pietra miliare nell’opera di civilizzazione degli ordinamenti. Ecco perché si deve tenere duro contro le ricorrenti tendenze ad un ritorno al passato. Ciò non toglie, ovviamente, che lo Stato debba farsi carico anche dei diritti dei familiari di questi pazienti, che devono essere messi in condizione di vivere una vita normale. Ma tutto questo può farsi in un contesto di valorizzazione di diritti di tutti e non con la compressione dei diritti di qualcuno. Antonello Murgia ci ricorda anche in quale temperie culturale e politica maturò la 180. Il ‘68, solo per i ciechi e per i reazionari, è non stata una grande stagione di avanzanmento delle libertà.

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