Il Congresso del popolo sardo alla ricerca di una difficile ripresa

1 Dicembre 2009
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Red

Alla Fiera di Cagliari, oltre 1.500 persone tra cui molti lavoratori delle aziende sarde in crisi hanno partecipato al Congresso delle rappresentanze del popolo sardo in vista della mobilitazione generale entro gennaio per la riscrittura dello Statuto autonomistico dell’Isola, per un nuovo Piano di rinascita e per un nuovo sviluppo della Sardegna. E’ quanto hanno proposto i segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, Enzo Costa, Mario Medde e Francesca Ticca.
Il Congresso, aperto dall’inno “Procurade e moderate” cantato da Maria Giovanna Cherchi sulle immagini di lotta sindacale dei lavoratori, dovrà mettere a punto un documento unitario che contiene le indicazioni provenienti dalle otto assemblee territoriali svoltesi da metà novembre ad oggi.
Nella sala congressi della Fiera c’erano delegazioni delle aziende in crisi, soprattutto del Sulcis, fra cui Eurallumina, Alcoa, Ila, Rockwool e Otefail Sail, ma anche alcuni esponenti del comparto agricolo, degli imprenditori e delle istituzioni nazionali, regionali e degli enti locali (dall’Anci alle Province, ai sindaci, come quello di Carbonia e Porto Torres). Durante la prima parte dell’assemblea, fischi quando è salito sul palco l’assessore regionale del Lavoro, Franco Manca, e grida all’indirizzo del presidente della Giunta, Ugo Cappellacci, a letto per l’influenza.
Ora, è un bene evocare il primo Congresso del popolo sardo del 1950, ma è anche un paragone pericoloso. Allora ci fu una grande mobilitazione in tutta la Sardegna e il Congresso ne raccolse i risultati. C’erano grandi partiti di massa, radicati che si mobilitarono capillarmente in tutti i luoghi di lavoro e in tutti i paesi e in tutte le città. Oggi tutto questo non c’è e molti lavoratori non sapevano neppure dell’evento. Allora c’era un’idea di sviluppo. Si puntò sul Piano di Rinascita e si mise in piedi un grande movimento unitario che unì tutte le forze vive dall’isola, dagli intellettuali ai lavoratori.
Oggi, tutto questo manca o è evanescente. La fase è diversa. Siamo in presenza di una grave recessione, nel 1950 si apriva una fase di grande sviluppo, dopo la guerra. C’era da ricostruire il Paese e grandi prospettive di lavoro in tutti i settori.
Oggi si vorrebbe una fase di mobilitazione di tutti i settori della società isolana, ma il nuovo modello di sviluppo per la Sardegna è un oggetto misterioso difficile o forse impossibile da trovare. E questo è testimoniato dalla presenza, in prevalenza, dei lavoratori delle aziende in crisi.
Nella sua relazione introduttiva, a nome di tutti e tre i sindacati, Mario Medde, leader della Cisl sarda, ha ribadito che “il lavoro è l’epicentro di questa lotta e pertanto gridiamo con forza il nostro No a chè questo cambiamento indispensabile avvenga sulle ceneri dei siti produttivi ed a danno dei lavoratori”. Ma sono parole al vento. Giuste, ma disperate, senza prospettiva. “Occorre unire tutte le forze perché da oggi parte un nuovo momento per l’Isola - ha detto il segretario generale della Cgil sarda, Enzo Costa - la Sardegna deve essere meno rassegnata e più attiva davanti ad attacchi che stanno cancellando 60 anni di autonomia, non solo dal punto di vista industriale, ma anche istituzionale”. Condivisibile constatazione, ma declinata in modo puramente difensivo. Secondo il leader della Uil sarda, Francesca Ticca, “serve un nuovo statuto ed un patto forte con le istituzioni statali ed europee per avviare un confronto unitario sul tema prioritario per l’Isola: il lavoro”. Ma la riforma dello Statuto è ormai frase logora e rituale, da essere perfino banale.
Sono intervenuti anche Canavera e Borrotzu della Pastorale del lavoro ed hanno introdotto quella speranza che solo gli uomini di fede hanno e sanno infondere. Comunque, l’inizio di buona lena è già un buon segno. L’unità dei sindacati è un bene prezioso che può risultare decisivo. Ci vuole però tanto tanto lavoro. E qualche idea in più.

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