La discriminazione: per combatterla bisogna conoscerla

3 Dicembre 2009
Nessun commento


Bruno Troisi

In questi giorni si è riaccesa la discussione sulla discriminazione razziale e/o religiosa, a seguito dell’incivile referendum svizzero. E’ riduttiva e  financo vergognosa la razione anzitutto del Ministro della Giustizia elvetico, che ha presentato il voto dei suoi concittadini come semplice opposizione di tipo urbanistico alla presenza dei minareti. Ma è riduttiva anche la reazione degli organi comunitari, i quali dovrebbero porre invece uno stop fermo e deciso al razzismo. In Europa non deve esserci spazio per discriminazioni, tanto più se così gravi e manifeste. 
Soltanto la Chiesa elvetica e il Vaticano hanno reagito con fermezza. E giustamente, perché nella discriminazione e  nel razzismo si sà com si inizia ma non si sà dove si andrà a parare.
Per ora la reazione del mondo musulmano al voto svizzero e’ stata civile e pacata. E’ riassunta nelle dichiarazioni del mufti d’Egitto, Al Gomaa, una delle voci piu’ autorevoli dell’Islam: “La proposta non e’ solo un insulto e un attacco alla liberta’ di fede, ma anche un tentativo di offendere i sentimenti della comunita’ musulmana al di fuori della Svizzera”: Nonostante cio’,  Ali Gomaa invita i 400.000 musulmani della Confederazione elvetica ad usare il “dialogo” e gli strumenti legali per contestare il “provocatorio” divieto.
Ma sarà sempre così? E quanti ascolteranno il messaggio responsabile di Alì Gomaa? C’è il pericolo di  ritorsioni o estremizzazioni in una catena crescente e, alla fine, incontrollabile di gesti  e decisioni inconsulte. Occorrono certo gli stimoli al dialogo, ma anche strumenti giuridici di rango costituzionale che impediscano alla fonte pronunciamenti o consultazioni popolari  discriminatorie delle libertà e dei diritti altrui.
E’ quantomai opportuno, quindi, approfondire la riflessione sulla discriminzaione onde contrastarla meglio e più efficacemente. Continuiamo, pertanto, il nostro colloquio col Prof. Troisi, iniziato il 18 scorso, per esaminare, in punto di diritto, gli aspetti problematici della discriminazione e della lotta contro di essa.

D. Quali sono gli aspetti più significativi e problematici della disciplina sulla non discriminazione?
R. Problemi interpretativi sorgono, innanzitutto, riguardo al concetto stesso di discriminazione, che costituisce il presupposto per l’applicabilità dei rimedi previsti dal legislatore.
D. Ma cosa dicono in proposito le leggi?
R. L’art. 43 del T.U. del 1998, espressamente richiamato dai dd.lgs. 215 e 216/2003, introduce, al primo comma, una clausola generale di non discriminazione, secondo la quale è vietato “ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporta una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”.
D. E poi c’è dell’altro?
R. L’art. 2 del d. lgs. 215/2003 precisa, poi, cosa debba intendersi per discriminazione diretta e per discriminazione indiretta.
Si ha discriminazione diretta quando “una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga”.
Il giudizio in termini di discriminatorietà è, dunque, un giudizio “relazionale”: esso non può essere formulato in assoluto, in quanto inevitabilmente la discriminazione, denunciata con riferimento a determinate categorie di soggetti, dev’essere apprezzata in rapporto al trattamento riservato ad altre categorie di soggetti (o alla generalità dei soggetti): in altre parole, il controllo esercitato al riguardo dal giudice non opera secondo il tradizionale schema binario, proprio del giudizio di meritevolezza di tutela o di liceità (“comportamento oggetto” e “norma parametro”), ma implica uno schema ternario, nel senso che, accanto all’atto o al comportamento da valutare e al principio di non discriminazione, occorre prendere in considerazione il trattamento di raffronto, trattamento che, usato come tertium comparationis, consenta di cogliere la violazione del suddetto principio.
D. E la discriminazione indiretta?
R. Si ha invece discriminazione indiretta “quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”. La causalità indiretta si riferisce, essenzialmente, alle ipotesi in cui il comportamento che determina la discriminazione consista nell’applicazione indifferenziata dello stesso criterio selettivo all’accesso all’utilità da lui offerta, criterio che di fatto precluda l’accesso a quella utilità a un certo gruppo a rischio di discriminazione, rispetto al resto della collettività. Nelle ipotesi di discriminazione indiretta, dunque, il preventivo accertamento del fatto discriminatorio implica un giudizio in termini di ragionevolezza sul trattamento uguale. Da ciò, per un verso, si evince la non riducibilità del principio di non discriminazione al principio di parità di trattamento, espressione – anch’esso – del più generale principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., ma riguardante il versante della giustizia retributiva; per altro verso, emerge l’idoneità del concetto di discriminazione indiretta, quale trattamento indifferenziato che non abbia tenuto conto di specifiche istanze culturali, religiose, ecc., a garantire il rispetto delle “diversità”, fondamento del diritto all’identità e alla differenza, in una società nella quale sempre più s’intrecciano etnie, culture, religioni, valori che chiedono di essere riconosciuti e rispettati nella loro specificità.
D. Ma che differenza c’è con quella indiretta?
R. A differenza della discriminazione diretta, che si concreta soltanto in presenza di un pregiudizio effettivo (c.d. fattispecie di danno), quella indiretta può essere integrata anche dal pericolo del verificarsi di un “particolare svantaggio” per la persona discriminata (c.d. fattispecie di pericolo concreto).
D. Si parla anche di molestie…
R. Certo. Il legislatore, avvalendosi, poi, del suo potere conformativo, qualifica “discriminazione” anche la molestia, ossia “il comportamento indesiderato, posto in essere per motivi di razza o di origine etnica, avente – anche qui - lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo”.
Si tratta di una nozione estremamente ampia, idonea a reprimere sia quei comportamenti che vengano percepiti come tali dalla parte lesa (criterio soggettivo) sia quei comportamenti che possano creare un “clima” di disagio o comunque tale da ledere la dignità della persona (criterio ambientale).
D. Mi pare una nozione utile…
R. La previsione della molestia come comportamento discriminatorio appare quanto mai opportuna, anche perché introduce nel nostro ordinamento una figura particolarmente subdola e odiosa di mobbing, e dunque tanto più bisognosa di adeguati mezzi di contrasto e di tutela delle vittime.
D. C’è anche chi impone la discriminazione o istiga a compierla…
R. Valutazione legale tipica in termini di discriminazione riceve anche l’ordine di discriminare, che va inteso - secondo la raccomandazione del Parlamento Europeo - con riferimento non soltanto agli ordini espressi e formali, ma a qualunque tipo di istigazione finalizzata a discriminare, sì da comprendere, ad esempio, sia le pressioni dei datori di lavoro sulle agenzie di collocamento per non vedersi assegnare lavoratori di una particolare origine etnica, sia gli inviti dei proprietari di immobili destinati ad uso abitativo, rivolti alle agenzie, di non contrattare con persone di una determinata etnia.
D. Ma cosa occorre perché ci sia discriminazione?
R. Molto importante, anche per i mezzi di tutela, è la circostanza che nella nozione di discriminazione - sia di quella diretta, sia di quella indiretta, sia di quella consistente nelle molestie - vengono equiparati “scopo” ed “effetto” del comportamento discriminatorio: l’uso del sintagma “scopo o effetto”, dove la “o” è impiegata con valore disgiuntivo, comporta, la sufficienza del solo scopo o del solo effetto ai fini del perfezionamento della fattispecie legale di discriminazione: la sufficienza dell’effetto, è stata prevista per svincolare l’operatività dei rimedi di cui all’art. 44 del T.U. del 1998 dalla rilevanza degli stati soggettivi dell’agente.
D. E la sufficienza dello scopo?
R. La sufficienza dello scopo, invece, consente al giudice adìto di inibire ogni comportamento discriminatorio, a prescindere dall’esistenza di una lesione attuale di un diritto umano o di una libertà fondamentale, non essendo necessario che il comportamento discriminatorio abbia già raggiunto il risultato avuto di mira, in base a una valutazione sociale tipica.
D. E la tutela?
R. L’art. 3 del d.lgs. 215/2003, delinea l’ambito di applicazione della tutela, con riguardo, da un lato, ai soggetti destinatari e, dall’altro, alle aree interessate.
D. E come viene articolata?
R. Nel primo comma, si stabilisce che “il principio di parità di trattamento senza distinzione di razza ed origine etnica si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato”. A tal proposito, viene da chiedersi se tale principio, con i relativi strumenti di tutela, operi soltanto a livello individuale o anche a livello collettivo. Su questo punto, io non credo sia ammissibile un trattamento irragionevolmente deteriore e discriminatorio nei confronti di persone giuridiche o di enti non personificati (si pensi all’esclusione di un’organizzazione di tendenza - di un’organizzazione cioè che ispiri la sua azione a una determinata religione o a determinate convinzioni - dallo svolgimento di un’attività o dall’accesso a beni e servizi. Paradossalmente, proprio alle organizzazioni di tendenza il legislatore ha riservato un trattamento differenziato, e proprio in riferimento al fenomeno delle discriminazioni). D’altra parte, il principio di eguaglianza è stato esteso anche alle persone giuridiche, non tanto e non soltanto in ragione del fatto che esse sono proiezioni di libertà e di attività individuali, ma, più in generale, in considerazione del carattere “obiettivo” che è venuto ad assumere il principio nella sua portata applicativa e giurisprudenziale. Occorre, poi, tener conto che la non discriminazione a favore dei gruppi ha trovato frequenti applicazioni anche nella giurisprudenza comunitaria, soprattutto in vista della libera esplicazione della loro attività, considerata oggetto di un autonomo interesse.
D. E l’ambito oggettivo della tutela?
R. Quanto all’ambito di applicazione oggettivo, la lettera della norma in questione (ma anche la lettera degli artt. 2 e 3) sembra delimitare tale ambito, sia in sede di qualificazione del fatto discriminatorio sia in sede di determinazione dello scopo o dell’effetto di esso, alle discriminazioni fondate sulla razza e sulle origini etniche. Il d. lgs. n. 215 del 2003, infatti, a differenza del d. lgs. n. 216 in materia di discriminazioni sul lavoro, tace sulle discriminazioni fondate sulle convinzioni e pratiche religiose, sulle convinzioni personali, sugli orientamenti sessuali, sulla disabilità e sull’età. Si pone, dunque, il problema della rilevanza, ai fini dell’applicabilità degli specifici mezzi di tutela, delle discriminazioni fondate su queste ragioni, in materie diverse dal rapporto di lavoro subordinato, ad esempio in materia di assistenza sanitaria, di prestazioni sociali, di istruzione, di accesso a beni e servizi (che sono tra i settori presi in considerazione dal d.lgs. 215/2003). A mio parere, dev’essere data un’interpretazione estensiva della clausola di non discriminazione, ricomprendendo in essa anche i motivi non espressamente indicati. E ciò, anche in considerazione dell’ampiezza del concetto di discriminazione razziale, usato dal legislatore del 2003, il quale, all’art. 1, d. lgs. n. 215, sottolinea l’esistenza di “forme di razzismo a carattere culturale e religioso”.
D. E poi c’è la questione fondamentale. Cosa deve intendersi con il termine “razza”? Esiste la razza? Einstein, com’è noto, diceva do appartenere alla razza umana, non riconoscendone altra…
R. L’unico riferimento al riguardo si legge in un’importante precisazione introdotta, in sede di approvazione della direttiva 2000/43, nel considerando n. 6, dove si afferma che l’Unione Europea respinge le teorie che tentano di dimostrare l’esistenza di razze umane distinte e che l’uso del termine razza non implica l’accettazione di siffatte teorie. Si tratta, dunque, di una concessione meramente verbale, per designare convenzionalmente la motivazione del comportamento discriminatorio di chi non soltanto crede in quelle teorie ma le strumentalizza a fini ideologici.
D’altra parte, l’art. 43 del T.U. sull’immigrazione, espressamente richiamato dal d. lgs. 215/2003 (art.2), tra le qualità personali a rischio di discriminazione, prevede, oltre alla razza e all’origine etnica, il colore, l’ascendenza, l’origine nazionale, le convinzioni e le pratiche religiose.
D. Se non erro, il legislatore, attraverso la clausola generale di non discriminazione, ha individuato una serie di fattori in presenza dei quali non sono ammissibili arbitrari trattamenti differenziati, o irragionevoli parificazioni.
R. Sì. La ratio delle norme appena citate è data da una regola di indifferenza di determinate qualità soggettive ai fini dell’accesso a una certa utilità. Il minimo comun denominatore delle suddette qualità è dato dall’esistenza, in base a una valutazione sociale tipica, di un possibile rischio di discriminazione nei loro confronti. Il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della nostra Costituzione richiede al legislatore di trattare in modo eguale situazioni eguali e in modo diverso situazioni diverse. Rispetto all’interprete, la ragionevolezza del trattamento eguale o diseguale opera come criterio di valutazione ai sensi dell’art. 12, comma 2 delle Disposizioni sulla legge in generale, ai fini dell’individuazione di una lacuna nel diritto scritto. Ora, poiché le convinzioni e le pratiche religiose nonché l’orientamento sessuale - alla luce non soltanto di una valutazione sociale tipica, ma anche di una valutazione legale tipica (si pensi all’art. 21 della Carta di Nizza, nonché all’art. 81 della Costituzione Europea) - vanno considerate qualità personali a rischio di discriminazione, non si può ad esse negare la tutela rafforzata offerta dalle norme in esame.

Il secondo colloquio col Prof. Troisi finisce qui. La prossima volta parleremo della lotta alla discriminazione, dei mezzi di tutela.

0 commenti

  • Non ci sono ancora commenti. Lascia il tuo commento riempendo il form sottostante.

Lascia un commento