Democrazia in crisi e scomparsa degli intellettuali

31 Maggio 2008
1 Commento


Red

C’è una relazione tra la crisi della democrazia e il fatto che la figura dell’intellettuale è una specie in via di estinzione? Ma chi è l’intellettuale? Non si definisce per il lavoro che fa, ma dal modo in cui lo fa, da come percepisce se stesso. Non conta insomma trarre da vivere dalle idee, quanto  vivere per le idee. O volendo essere meno idealisti, l’intellettuale è un produttore di cultura che fa i conti con le questioni fondamentali del suo tempo. E lo fa in autonomia. Anzi “l’orgoglio per la propria autonomia” ne costituisce il tratto essenziale. Per Bobbio l’intellettuale è anzitutto critico verso la propria parte, che lo pone in continua tensione con le istituzioni e i saperi acquisiti. Sono cioè uomini mai soddisfatti di come stanno le cose e, dunque, disponibili all’impegno sociale.  Non a caso un grande commentatore sociale americano Wrigt Mills riteneva che l’intellettuale è colui che anzitutto chiama i poteri costituiti a rendere conto del proprio operato. Insomma, tutto il contrario dei mandarini, ossia degli intellettuali al servizio dell’oligarchia dominante, ideologi e apologeti del potere; uomini assorbiti nell’establishment e felici d’esserlo. Scendono così a compromessi, si tirano indietro rispetto alle pressioni del potere, si adeguano al clima culturale prevalente, barattano la propria autonomia per una vita più facile.
Tuttavia, attenzione, anche costoro fanno opinione e spesso concorrono a creare o a rafforzare il senso comune. Anche nel nostro tempo è così. Sono evidenti, infatti, nella società contemporanea influenze e tendenze che la rendono relativamente inospitale agli intellettuali indipendenti. Un’influenza fondamentale è determinata dal mercato. L’esperto e il professionista che vende idee a pagamento ne è la figura centrale. Vengono così prodotte le idee che hanno mercato, cioè che interessano al capitale e al potere. E lo si fa mantenendo un contegno apparentemente staccato e neutrale, non scendendo mai sul terreno della politica attiva, offrendo la parvenza di oggettività. In realtà, dietro questa ostentata neutralità si nasconde la consapevole perdita della propria indipendenza; l’intellettuale cessa d’interrogare il potere e di chiedergli conti, diventa uno specialista anche nel linguaggio, che tende ad essere accuratamente tecnico, lontano dal gergo comune. Nasce il professionalismo come ideologia che puntella le élites dominanti, fornendo loro gli strumenti per l’egemonia culturale. La competenza tecnica rende legittima e virtuosa l’azione dell’autorità, convincendo ch’essa è rivolta all’interesse generale. L’intellettuale diventa pragmatico e dà un approccio strumentale alla propria attività. Questo spiega l’estrema attenzione delle forze del mercato nell’acquistare esperti e professionisti per determinare la produzione culturale.
Se, dunque, noi vogliamo comprendere la crisi delle nostre università non dobbiamo andar lontano: sta nel conformismo dilagante, frutto delle spinte convergenti del potere economico e di quello politico, che spesso s’identificano nelle stesse persone al governo (così oggi in USA, in Italia e, nel piccolo, in Sardegna). L’intellettuale tende a ricavare l’autorità non dalla qualità della sua ricerca autonoma ma dal radicarsi nelle istituzioni (divenire i consulenti dei governanti) o nel farsi assorbire in organismi aziendali (consulenti delle imprese), o nel conquistare, mediante cordata, la guida degli organi delle istituzioni accademiche (Rettorati, Facoltà e Dipartimenti) sempre più intese come aziende e centri di potere politico. Questi intellettuali divengono così espressione dei loro centri di potere e perdono il gusto dell’autonomia e la passione per la libera ricerca. E si propongono nel dibattito pubblico come propagandisti del loro committente o del loro gruppo o della loro istituzione piuttosto che come fornitori di punti di vista critici. Questo è palese nelle Università, dove sempre meno si fornisce pensiero critico e sempre più si dà veste scientifica al pensiero dominante. Qui sta anche la causa della crescente banalizzazione del “sapere”, che viene piegato a finalità propagandistiche. E la crisi dei media? Non dipende dal fatto che il giornalismo si piega sempre più diffusamente al potere. Non a caso cresce il fenomeno di chi volendo fare politica, per acquisire una posizione di comando si munisce di strumenti di comunicazione di massa. La crisi della democrazia è insieme causa ed effetto di tutto questo. I partiti divengono sempre più uguali, e simili sono i loro programmi, prodotti da intellettuali, divenuti mandarini o professionisti dei diversi schieramenti. Spesso stanno stabilmente nell’area di governo, al di là del suo colore. Questi, del resto, non sono oggi i tratti prevalenti della Démocratie en  Amerique? Questo è anche il modello del Cavaliere; ma ne è affascinato anche il capo dell’opposizione, così che entrambi vogliono trapiantarlo in Italia (e nel piccolo qualcuno, ad onta della sbandierata identità, anche in Sardegna). Averne consapevolezza è già un buon passo per contrastarne il disegno.

1 commento

  • 1 Francesco Trapani
    27 Giugno 2009 - 11:23

    consiglio, di Eugenio Scalfari, “La sera andavamo in via Veneto”. Mi pare che accordi bene.

Lascia un commento