Cristian Ribichesu
“La crisi dell’acqua è una crisi ecologica che ha cause commerciali ma non soluzioni di mercato. Le soluzioni di mercato distruggono la terra e aumentano le disuguaglianze. La soluzione di una crisi ecologica è ecologica, e la soluzione dell’ingiustizia è la democrazia. La cessazione della crisi dell’acqua impone una rinascita della democrazia ecologica.”
V. Shiva, Le guerre dell’acqua.
Di fronte ai danni climatici, sempre più spesso crescono le richieste per un cambiamento dell’interazione umana col mondo entro i parametri della sostenibilità ambientale. In merito all’acqua, la sostenibilità ambientale dell’uso delle risorse idriche è intesa come il mantenimento illimitato della possibilità di utilizzare la risorsa, garantendone la qualità e la quantità nel tempo. Ovviamente, la lunghezza nel tempo di uno sfruttamento idrico, in misura indeterminata, è legata alla conservazione dell’acqua dolce attraverso la riduzione dei consumi e dell’inquinamento. L’acqua immediatamente disponibile per gli usi umani è limitata, e a livello mondiale questo causa conflitti di vario tipo, che sfociano, in molti casi, addirittura, in veri e propri scontri armati. Senza riserve, quindi, la diminuzione dei consumi potrebbe contenere conflitti presenti, e futuri, e ridurrebbe l’inquinamento, dannoso per la salute, per l’ambiente e per lo stesso ciclo dell’acqua. Anche il contenimento della pressione umana sull’ambiente limiterebbe l’inquinamento, non ostacolando i processi naturali di autodepurazione dell’acqua. È pur vero che non tutti pensano che l’acqua sia un bene esauribile, come è vero che in molti si contrappongono a tutti quegli ambientalisti, come la fisica indiana Vandana Shiva, che dipingono lo scenario mondiale imminente come quello dell’Apocalissi. Certamente il mondo possiede risorse rinnovabili d’acqua dolce superiori all’attuale utilizzo umano, ma è pur vero che sprechi, con la restituzione di un’acqua che non ha le stesse caratteristiche chimiche possedute prima del suo uso,inquinamento, sfruttamento eccessivo e inaridimento di molti luoghi, causano un’alterazione del ciclo idrologico, e dell’ambiente in modo più esteso, che ha dirette ripercussioni sulla vita e sulla qualità della vita di molte persone. Piuttosto, sempre in tanti, come Bernard Barraqué, uno dei massimi esperti del settore acqua in Europa, pensano che uno dei problemi principali sia dovuto al rapporto tra la spesa economica e quella temporale, tra quella ambientale e quella sociale, per attingere, prendere e portare l’acqua, da dov’è presente a dove serve.
Per capire quali interessi, economici e politici, possano esistere attorno al controllo dell’acqua potabile nel mondo, e soprattutto nelle regioni più povere dove esistono poche strutture per il trasporto e la depurazione dell’acqua, risulta interessante riportare un estratto dal libro For love of water, della Feltrinelli, libro che accompagna il bel film-documentario Flow, della regista Irena Salina, vero e proprio documento di denuncia nei confronti delle maggiori multinazionali che operano per la gestione, non democratica, dell’acqua sul pianeta. Così, esponendo le azioni di protesta dei vari gruppi ambientalisti che si battono per un equo utilizzo dell’acqua potabile, dalle parole di Maude Barlow, presidentessa nazionale del Council of Canadians, la più rappresentativa organizzazione statale di avvocatura del Canada, e fondatrice del Blue Planet Project, associazione internazionale che si batte a livello internazionale per il diritto all’acqua, sappiamo che: “Tragicamente, la chiamata all’azione giunge in un’epoca ispirata alle direttive del cosiddetto “Washington Consensus”, un modello di economia che affonda le sue radici nella convinzione che il libero mercato costituisca l’unico e il solo modello economico possibile per il mondo intero. Stati-nazione in competizione fra loro, così, abbandonano la preservazione delle risorse naturali e privatizzano il proprio patrimonio ecologico. Ogni cosa è in vendita, persino alcuni aspetti della vita, come i servizi social e le risorse naturali, che una volta venivano considerati patrimonio dell’umanità. I governi di tutto il mondo si stanno sottraendo alla responsabilità di proteggere le risorse del proprio territorio delegando invece l’autorità di farlo a compagnie private coinvolte nello sfruttamento delle risorse naturali. Ma messi di fronte a una crisi delle risorse idriche ben documentata, governi e istituzioni internazionali caldeggiano una soluzione ispirata al Washington Consensus: la privatizzazione e la mercificazione dell’acqua. Date un prezzo all’acqua, sostengono, mettetela in vendita e lasciate che sia il mercato a determinarne il futuro. Per loro, non c’è molto altro da aggiungere. L’acqua, asseriscono la Banca mondiale e le Nazioni Unite, è un “bisogno dell’uomo” ma non un “diritto umano”. Non si tratta solo di una disquisizione semantica. La differenza nell’interpretazione, qui, è cruciale. Un bisogno dell’uomo può essere soddisfatto in molti modi, specialmente per qualcuno che possiede disponibilità finanziaria. Nessuno, invece, può mettere in vendita un diritto umano. In questo modo, supportata dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale, una manciata di multinazionali opera una politica aggressiva per potersi assicurare la gestione del servizio idrico pubblico in molti paesi del mondo, alzando drammaticamente il prezzo dell’acqua per i residenti locali e speculando, specialmente sulla disperata ricerca di soluzioni alla crisi idrica del Terzo mondo. Certe aziende lo ammettono in modo disarmante; si beano del peggioramento delle forniture d’acqua dolce e degli standard di qualità, fattori che creano una straordinaria opportunità commerciale per sé e per i propri investitori. A loro avviso, l’acqua dovrebbe essere trattata come qualsiasi altro bene commercializzabile, e il suo utilizzo dovrebbe essere regolato dai principi del profitto. Non deve allora sorprendere che il settore privato dell’acqua sia venuto a conoscenza del profilarsi di una crisi idrica molto prima del resto del mondo, e che abbia quindi deciso di assicurarsi per tempo un profitto su ciò che ormai viene considerato l’oro blu. Secondo quanto sostiene “Fortune”, i profitti annuali dell’industria dell’acqua ammontano ormai al 40% di quelli dell’industria petrolifera e sono già sostanzialmente più alti di quelli del settore farmaceutico, ormai vicino al trilione di dollari. Tuttavia, al momento solo il 5% circa delle acqua mondiali è in mani private; appare quindi evidente che stiamo parlando di un potenziale di profitto gigantesco, qualora la crisi idrica peggiorasse. Nel 1999 si sono registrate più di 15 miliardi di dollari di acquisizioni soltanto nell’industria idrica degli Stati Uniti, e tutte le più grandi aziende dell’acqua adesso sono quotate in borsa.
Attualmente, le maggiori aziende a erogare servizi idrici a fini di lucro sono dieci. Le due più grandi sono entrambe francesi- la Vivendi Universal e la Suez- considerate come la General Motors e la Ford dell’industria idrica su scala mondiale. Insieme forniscono servizi per utenze private e acque nere a più di 200 milioni di clienti in 150 paesi, e facendosi concorrenza reciproca e disputandosi il mercato anche con la Buygues Saur, la Rwe-Thames Water e la Bechtel-United Utilities, stanno cercando di espandersi in ogni angolo del pianeta. Ricevono l’appoggio della banca mondiale e del Fondo monetario internazionale, che infatti spingono sempre più paesi del Terzo mondo ad abbandonare la gestione delle proprie reti idriche nazionali per impegnarsi con i giganti dell’acqua, e risultare così eleggibili per la cancellazione del debito. La performatività di queste aziende in Europa e nei paesi in via di sviluppo è molto ben documentata: profitti enormi, un prezzo dell’acqua più elevato, esclusione per i clienti che non possono permettersi di pagare, assenza di trasparenza per le operazioni commerciali, una ridotta qualità dell’acqua e corruzione. L’acqua sfruttata a fini di lucro, però, può assumere altre forme. Nel mondo, l’industria dell’acqua in bottiglia è tra quelle che attraversano una fase di più veloce sviluppo e minore regolamentazione, espandendosi con un tasso del 20% annuo. L’anno scorso all’incirca 90 miliardi di litri di acqua in bottiglia sono stati venduti nel mondo, la maggior parte di essi in contenitori di plastica, garantendo profitti per 22 miliardi di dollari a un’industria che è tra le più inquinanti del pianeta. Le aziende che vendono acqua in bottiglia come la Nestlé, la Coca-Cola, e la Pepsi sono impegnate in una ricerca costante di nuovi approvvigionamenti idrici capaci di sfamare l’insaziabile appetito del proprio commercio. Gli interessi di queste corporation si dirigono nelle comunità rurali di tutto il mondo, dove acquistano terreni destinati all’agricoltura, terre indigene, spazi bradi e interi sistemi acquiferi, e dopo aver esaurito le fonti di questi territori si muovono verso altre zone. In molti luoghi del pianeta si sta combattendo una lotta feroce attorno a queste “rendite d’acqua”, specialmente nel Terzo mondo. Come ha avuto modo di spiegare una delle corporation coinvolte, l’acqua ormai è diventata “un patrimonio così limitato da poter essere preso con la forza”. Attualmente, alcune corporation sono impegnate nella costruzione di enormi acquedotti per poter trasferire acqua dolce a lunghe distanze per la vendita commerciale, mentre altre stanno costruendo supercisterne e gigantesche tasche d’acqua sigillate per poter trasportare grandi quantità d’acqua sull’oceano, verso i propri clienti. La Banca mondiale sostiene che “in un modo o nell’altro, l’acqua molto presto verrà movimentata come adesso viene movimentato il petrolio”. La massiccia movimentazione di grandi quantità d’acqua potrebbe però avere forti impatti ambientali di natura catalitica. Si è addirittura proposto di invertire il corso di alcuni possenti fiumi del Nord del Canada, e l’impatto ambientale di una tale operazione sarebbe persino peggiore di quello della grande diga cinese delle Tre Gole.”
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