Gianluca Scroccu
Pubblichiamo questa recensione di Gianluca Scroccu sul libro su Walter Tobagi scritto dalla figlia Benedetta. Un libro da leggere, che riporta alla luce uno dei più efferati delitti del terrorismo rosso.
Di questo fatto mi son rimaste impresse alcune forti sensazioni, che spesso mi tornano alla mente. Anzitutto l’inutilità dell’assassinio. Tobagi era un giovane e brillante giornalista socialista, impegnato nel sindacato, autorevole nel suo ambiente benché ancora giovanissimo. Un omicidio senza un perché, se non forse - nella mente folle dei terroristi - motivato dalla militanza democratica di Tobagi. Secondariamente, per la inaudita violenza: a Walter, colpito e già a terra, fu dato il colpo di grazia a sangue freddo; infine, per la tenace e civile presenza del padre al processo contro gli assassini, per chiedere giustizia. L’assassino - manco a dirlo - senza tormenti, si pentì repentinamente e fruì di un trattamento di favore, che gli diede una pena mite, ridicola a confronto dell’enormità del fatto, del dolore immenso, permenente ch’esso provocò nella famiglia e in tutti i democratici. Papà Tobagi compostamente manifestò il suo disappunto e, spiacevolmente, fu addirittura, per la sua sete di giustizia, criticato da alcuni colleghi del figlio. In realtà, a me quella presenza costante, paziente in aula ha suscitato e suscita ancor oggi, a tanti anni di distanza, un’infinita compassione e solidiarietà.
Pensando a quel padre e all’efferatezza di quell’assassinio di un uomo mite, devo confessare che riemergono in me gli istinti peggiori trasfusi nel mio DNA dal modo di pensare e dalle pratiche dei nostri avi: mi sembra giustificato il ricorso da parte di papà Tobagi alle regole del codice barbaricino e alla vendetta come istituto centrale di esso. E’ un istinto che ovviamente la razionalità e i valori di civiltà giuridica contengono e combattono. Ma - devo confessare - che, al ricordo di Tobagi, scatta prepotentemente in me, incomprimibile. Così come mi suona stonato, anche se civilmente comprensibile, il perdono di Giovanni Bachelet per l’assassinio alla Sapienza del padre, anch’egli uomo mite e impegnato, uno dei Maestri del diritto pubblico nel nostro Paese. E’ difficile, forse innaturale, il perdono o la mitezza per fatti così efferati e gratuiti. (A.P.)
Ecco ora la recensione di Gianluca Scroccu.
“Attenta a non farti troppo male”. Così nonno Ulderico espresse le sue preoccupazioni quando Benedetta gli comunicò l’intenzione di studiare la vicenda di suo padre, Walter Tobagi, il giornalista del Corriere della Sera assassinato a Milano il 28 maggio 1980 da un commando della “Brigata XXVIII marzo”, una delle tante sigle che animavano il terrorismo rosso degli anni Settanta. Ora quel proposito si è concretizzato nel libro Come mi batte forte il tuo cuore. Storia di mio padre (Einaudi, pp. 302, € 19,00). Un’opera, quella della Tobagi, che unisce la forza del saggio alla bellezza del romanzo, facendo trasudare da ogni pagina dignità e passione civile. C’è tutta la forza di una figlia che non vuole contribuire alla costruzione della retorica dell’eroe assassinato; il suo intento è infatti quello di restituirci un uomo dalla vita normale che credeva nei valori del suo lavoro e che con un metodo rigoroso, quello che impiegava nelle sue inchieste giornalistiche o nei suoi libri, cercava di comprendere quel periodo terribile.
Tobagi era un uomo con una formazione cattolica e socialista ma nella professione era un laico rigoroso. Né partito, né potere economico potevano condizionarlo. Esemplari in questo senso gli appunti in cui criticava la decisione del Corriere di pubblicare un’intervista anonima, di fatto concordata, a Craxi. Oppure le pagine dedicate al suo impegno nel sindacato dei giornalisti e le sue battaglie per la costruzione di una rappresentanza che sapesse tutelare prima di tutto la libertà d’informazione contro ogni condizionamento. Erano anni difficili, quelli del Corsera, perché l’infiltrazione di logge sovversive dell’ordine costituzionale come la P2 ne minacciava seriamente la libertà interna: provoca un brivido leggere che il foglio di rivendicazione dell’attentato che uccise Tobagi fu trovato nelle carte di Gelli.
Walter era un giovane marito e padre di trentatré anni quando due killer, appartenenti ad una banda che giocava a fare la rivoluzione, gli spararono senza pietà in una via di Milano. Molti di loro erano giovani borghesi benestanti che facevano la lotta proletaria mentre a casa la cameriera stirava i vestiti o la cuoca preparava la cena. Forse anche per questo non si fecero scrupoli nell’assassinare il figlio di un uomo del popolo, un “popularis” come scrive la figlia, esempio di una repubblica democratica che sulla base del dettato costituzionale stava costruendo la strada dell’emancipazione non con la follia delle P38 ma con la pazienza di chi vuole sviluppare il sistema pacificamente e con un metodo quotidiano per migliorare veramente le condizioni dei lavoratori. Così operavano uomini come Tobagi, Alessandrini, Guido Rossa, Casalegno, Ambrosoli, Moro, Bachelet, D’Antona e Biagi e i tanti agenti delle forze dell’ordine e i semplici cittadini che pagarono con la vita l’impegno contro questi sovvertitori dell’ordine costituzionale.
I terroristi erano infatti gente patetica e farneticante; ancora oggi molti di loro pontificano purtroppo sui media. L’autrice non li vuole perdonare, né riesce a vederli senza soffrire, come racconta nello struggente e duro capitolo dove descrive l’incontro fortuito con uno degli assassini del papà in una libreria milanese.
Arrivati all’ultima pagina del libro viene spontaneo pensare che Benedetta Tobagi, con il suo amore per il padre, la sua forza di narratrice e il suo rigore di ricercatrice, ci abbia regalato un’opera così lucida, commovente e ricca di coraggio civile destinata a diventare una lettura obbligata per chiunque voglia capire cosa sia stato un periodo ancora oscuro della nostra storia come quello degli anni Settanta.
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