Carlo Dore jr.
Da qualche tempo, anche all’interno dell’area democratica, incontra notevoli consensi la tesi secondo cui il ripristino dell’immunità parlamentare prevista dall’originario disposto dell’art. 68 cost. (che impediva alla Magistratura di sottoporre a procedimento penale un parlamentare senza l’autorizzazione a procedere della Camera di appartenenza) rappresenterebbe comunque una soluzione preferibile per la crisi istituzionale in atto rispetto all’approvazione della legge sul “processo breve” al momento all’esame del Senato.
In altre parole: se è vero che Berlusconi, pur di non affrontare i tre processi in cui risulta imputato, è disposto ad approvare una legge che finirebbe col porre nel nulla quasi centomila processi allo stato pendenti in primo grado - vanificando così l’aspettativa dei cittadini di avere giustizia, anche di fronte a delitti socialmente allarmanti come il reato di corruzione -, allora tanto vale accordargli l’immunità che chiede. In sostanza: sacrifichiamo tre processi per salvarne altri centomila.
Proprio sull’istituto dell’autorizzazione a procedere di cui sopra vorrei spendere qualche parola: premesso che l’immunità delineata dall’originario disposto art. 68 era stata prevista dai Costituenti all’indomani di una fase storica particolare (durante la quale le pronunce dei Tribunali speciali rappresentavano lo strumento attraverso cui il Regime fascista riduceva al silenzio gli esponenti delle forze di opposizione), detta immunità fu espunta a furor di popolo dall’ordinamento nel non lontano 1993, in quanto percepita - anche da alcune componenti dell’attuale maggioranza di governo - come uno strumento utile non a garantire l’equilibrio del sistema istituzionale, ma ad assicurare l’impunità di una classe politica destinata ad affogare nel fango della corruzione.
Ora, la scelta di ripristinare questa immunità per “superare definitivamente la crisi in atto tra politica e giustizia” non mi pare condivisibile, almeno per tre ordini di motivi. In primo luogo, essa concorrerebbe, specie in un sistema caratterizzato dalla sostanziale cooptazione dei parlamentari, a ridurre ulteriormente i già ristretti margini di responsabilità degli eletti verso gli elettori; in secondo luogo, perchè dimostrerebbe come la Costituzione - tavola di valori universalmente condivisi, in cui sono contenuti sia i principi che governano il funzionamento delle istituzioni democratiche, sia le regole basilari della convivenza civile - può di fatto essere manipolata per assecondare le esigenze contingenti del leader di una maggioranza politica.
Infine, l’applicazione della tesi secondo cui la riforma della Carta Fondamentale sarebbe necessaria per salvaguardare la stabilità del sistema giudiziario e per tutelare l’esigenza del cittadino di “avere giustizia” dinanzi al pericolo dell’approvazione della sciagurata legge sul “processo breve” (sacrifichiamo tre processi per salvarne centomila…) introdurrebbe, a mio avviso, un ulteriore vulnus nell’ambito del nostro ordinamento democratico, imponendo il superamento della democrazia della legittimità e della condivisione a favore della democrazia della sopraffazione.
Troppo, anche per questa Italia in cui, volendo usare le parole del noto costituzionalista Roberto Bin, la tracotanza domina ormai incontrastata nei palazzi del potere.
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