Carlo Dore jr.
La presentazione del ddl sul “processo breve”, che sarà sottoposto nei prossimi giorni all’esame della Commissione Giustizia del Senato, non deve essere semplicemente interpretato come l’ennesima misura che una maggioranza parlamentare del tutto appiattita sulla voluntas principis intende adottare – in chiaro spregio alle prerogative costituzionali – al solo scopo di garantire l’impunità del solito imputato eccellente.
Questa norma costituisce invece un ulteriore indice della gravità di quella crisi del sistema democratico a cui faceva riferimento Gustavo Zagrebelsky nel suo articolo pubblicato da “La Repubblica” lo scorso 7 novembre, situazione di crisi peraltro facilmente riscontrabile attraverso l’esame del percorso politico delineato dallo stesso Presidente del Consiglio all’indomani della pronuncia con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità del Lodo Alfano.
Il ragionamento offerto da Berlusconi alle telecamere di Bruno Vespa può essere infatti così sintetizzato: il Premier è eletto direttamente dal popolo, dunque gli Italiani stanno con il Premier. La Magistratura - con le sue indagini, con i suoi processi, con le sue sentenze, con le sue continue manifestazioni di indipendenza – rischia di sovvertire quella che è l’incontrovertibile volontà popolare: ecco quindi che le “leggi ad personam” non possono essere descritte come una prevaricazione della politica rispetto alle prerogative del potere giudiziario, ma costituiscono viceversa uno strumento utile a garantire la piena attuazione alle indicazioni del corpo elettorale.
Gli Italiani sono con il Premier: e allora, avanti con la legge sulla prescrizione processuale, e pazienza se, per bloccare i tre processi in cui il Presidente del Consiglio risulta coinvolto, si corre il rischio di vanificare altri centomila procedimenti al momento in corso; avanti con il ripristino dell’immunità parlamentare, espunta a furor di popolo dall’ordinamento nel non lontano 1993, anche su iniziativa di alcune delle forze che compongono l’attuale coalizione governativa; avanti con la riforma costituzionale volta ad introdurre l’elezione diretta del Capo dell’Esecutivo, con conseguente superamento della forma di governo parlamentare a favore di un modello istituzionale basato sull’esaltazione del premierato forte. E a quei pochi irriducibili che si ostinano a domandare: “E la democrazia?” il Cavaliere risponde con il suo tagliente sorriso da caimano: “La democrazia? Alla democrazia ghe pensi mì!”
Tuttavia, posto che Ilvo Diamanti ha già più rilevato la sostanziale erroneità dell’affermazione che riconnette al Premier il consenso della maggioranza assoluta degli Italiani, vale forse la pena di chiedere: cosa intendiamo oggi per “democrazia”? Quale valore si attribuisce al concetto di democrazia nel Paese del “Nuovo che avanza”? E soprattutto: l’Italia di Berlusconi può ancora definirsi una democrazia piena ed autentica, o deve rassegnarsi alla condizione di democrazia minore?
Partiamo dal primo degli interrogativi appena formulati: al di là dell’etimologia della parola (democrazia: governo del popolo), siamo naturalmente portati a qualificare la democrazia non come la semplice libertà di scegliere i governanti, ma come la forma di governo in cui i cittadini possono partecipare alla vita politica del Paese, avanzando idee, istanze, proposte che i partiti devono rappresentare in seno ai centri decisionali. In altre parole: la democrazia viene concepita come partecipazione e come condivisione di un programma politico, e i partiti rappresentano lo strumento attraverso cui questo programma trova attuazione.
Ebbene, con il crollo del muro di Berlino e con la crisi (talvolta enfatizzata) delle ideologie tradizionali, l’avvento di Berlusconi ha comportato la trasformazione della democrazia partecipata a cui abbiamo fatto appena riferimento appunto in una forma di “post-democrazia” o di “democrazia a sovranità limitata”, a cui ha fatto seguito il “governo del popolo” con il “governo del leader”.
E’ infatti venuta meno la già descritta condivisione del programma politico, sostanzialmente tramutata in mera condivisione della figura del leader; è venuta meno l’idea del partito come strumento di partecipazione, rispetto alla quale si è ben presto affermata l’idea del partito come possibilità di carriera; è venuta meno la responsabilità degli eletti verso gli elettori, con i cittadini che accettano sempre più spesso di fungere da mero strumento di legittimazione delle decisioni del leader. Insomma, la democrazia concepita come partecipazione ha rapidamente lasciato spazio alla logica della democrazia intesa come “delega in bianco”.
Ecco perché sarebbe errato interpretare il ddl sul processo breve come l’ennesimo svarione di un legislatore grossolano e poco lungimirante: perché questa norma rappresenta in verità un’ulteriore tappa verso l’istituzionalizzazione della post-democrazia, verso l’instaurazione di un sistema imperniato sulla figura di un Premier reso legibus solutus dalla legittimazione plebiscitaria e dal sostegno di una maggioranza di governo composta da parlamentari non scelti direttamente dai cittadini, ma cooptati in base alle indicazioni del princeps.
E a chi continua a chiedere: “E la democrazia? E la partecipazione? E la condivisione di idee, progetti, istanze ed aspirazioni su cui dovrebbe fondarsi ogni programma politico degno di questo nome?”, il Cavaliere continua ad opporre il sorriso da copertina ed i sondaggi da cui emerge la sua perpetua delega in bianco: “La democrazia? Alla democrazia ghe pensi mì!”
Leaderismo plebiscitario, cultura dell’immunità, cooptazione in luogo dell’elezione. E’ questa la concezione della democrazia che si è affermata nell’Italia della Seconda Repubblica: dalla partecipazione alle deleghe in bianco, benvenuti nell’era della “post-democrazia”.
1 commento
1 dik
17 Novembre 2009 - 00:19
lui si sente per-seguitato!è un bambino nonno viziato e si scoccia quando lo trovano con le mani nella marmellata….dik
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